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Ascesa e caduta delle banche d'investimento

22/10/2008

ll paesaggio competitivo della finanza sta cambiando, le investment banks sono le grandi perdenti; come mai tali organizzazioni sono crollate?

Le investment bank statunitensi sono state per molti decenni il cuore stesso del sistema finanziario del paese e sostanzialmente anche del resto del mondo e nello stesso tempo anche il suo cervello – così come, peraltro, negli ultimi anni, gli hedge funds e i fondi di private equity sono stati le truppe d’assalto del sistema.

E’ negli uffici di queste organizzazioni che si inventavano il più delle volte i nuovi prodotti finanziari, che si mettevano a punto le grandi operazioni di finanziamento alle imprese, che si studiavano i più importanti processi di fusione ed acquisizione, che si avviavano anche le più spericolate operazioni di speculazione. La motivazione di fondo di tali strutture è sempre stata, peraltro, in tutta la sua storia più che centenaria, lo spirito di rapacità e quello di sopraffazione.

Queste istituzioni erano, in ogni caso, i veri “intellettuali organici” del sistema; bisogna ricordare, a questo proposito che, almeno nell’area della finanza, magari al contrario che in altri campi, chi riesce a trovare nuove formule e nuove idee non resta certamente isolato nella sua torre d’avorio e non viene respinto dal sistema, ma trova prima o poi, a volte molto in fretta, che il mercato gli viene dietro e applica il suo sapere per cercare di aumentare il livello dei propri guadagni.

Così, incidentalmente, può essere opportuno ricordare che molti premi Nobel per l’economia sono stati attribuiti in passato a degli studiosi di finanza, da Markowitz, a Sharpe, a Modigliani, a Scholes; ora, le loro idee non sono rimaste chiuse nelle pagine dei loro libri e dei loro articoli, ma sono diventate carne ed ossa della struttura dei mercati finanziari odierni.

Ma torniamo alle investment bank; di fatto il paesaggio competitivo della finanza sta cambiando davanti ai nostri occhi e le banche di investimento sono le grandi perdenti (Drew, Kang, Trejos, 2008); come mai in ogni caso tali organizzazioni sono ora crollate, travolte dalla crisi?

Andrew Ladhe, Il fondatore della Ladhe Capital, un hedge fund californiano di grande successo, ha una spiegazione molto semplice. Egli si è ritirato dagli affari qualche giorno fa e in tale occasione (si veda www.ft.com, 17 ottobre 2008) ha inviato una lettera di addio agli investitori del suo fondo. Nel messaggio Ladhe sferra un pesante attacco agli “idioti” che a suo dire gestivano le grandi banche – egli cita espressamente, tra le altre istituzioni, due banche di investimento fallite, la Bear Stearns e la Lehman Brothers- e che gli avevano permesso di accumulare grandi fortune accettando di essere le controparti nelle sue scommesse finanziarie. “Questa gente”, dice Dahle nel suo messaggio, “non era degna della educazione che aveva ricevuto nelle migliori scuole del paese a spese dei propri genitori”.

Ma la spiegazione di Ladhe per la crisi delle investment bank può apparire troppo semplicistica e così tentiamo di approfondire l’argomento.

Intanto ricordiamo brevemente come si presenta il quadro oggi. Dopo un lungo processo di ristrutturazione, durato molti anni, che aveva visto l’assorbimento di molte istituzioni del settore, magari vecchie anche di cento anni, da parte di altre istituzioni statunitensi ed europee, il numero delle banche di investimento statunitensi indipendenti si era recentemente ridotto a cinque -Bear Stearns, Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley. Successivamente, la Lehman è fallita e i resti sono stati raccolti dalla Barclays inglese e dalla Nomura giapponese, mentre la Bear Stearns e la Merrill Lynch sono state assorbite da altre organizzazioni, la JPMorgan Chase e la Bank of America; restano in piedi con qualche ferita le due più gloriose, la Morgan Stanley, che ha però dovuto accettare i soldi dei giapponesi della Mitsubishi, che hanno messo un piede nell’organizzazione, mentre si è scatenata la lotta tra due istituti statunitensi per il controllo della società e la Goldman Sachs, organizzazione in cui è entrato con 5 miliardi di dollari, ma portando anche un rilevante supporto di immagine, Warren Buffett.

In tempi meno turbolenti a Wall Street circolava un concetto chiaro : “cerca di fare come la Goldman Sachs” (The Economist, 18 settembre 2008). Ma per andare avanti oggi i due istituti supersiti hanno dovuto trasformarsi in banche universali, secondo il modello tedesco e hanno dovuto cominciare quindi a raccogliere depositi tra i risparmiatori.

Le grandi strutture finanziarie del paese si erano a suo tempo sviluppate tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento utilizzando in gran parte capitali inglesi e di altri paesi europei; con il controllo di tali risorse essi, a partire dal capo indiscusso della banda, J. P. Morgan –che sarà poi messo sotto accusa dal Congresso durante il periodo del New Deal, ma il cui nome si ritrova ancora oggi nel marchio di due grandi banche-, erano in grado di dettare la legge a molti business del paese, a corto di capitali (Cernow, 2008). Ma la situazione era poi cambiata con la crisi del 1929, appunto con l’avvento del New Deal.

Con la crisi, l’opinione pubblica e il governo statunitensi, convinti della responsabilità delle grandi istituzioni finanziarie nel precipitare degli eventi, avevano, tra l’altro, con il Glass-Steagall Act del 1933, deciso di separare le banche commerciali, che raccolgono depositi dal pubblico, dalle banche di investimento, che dovevano invece svolgere soltanto attività di consulenza e assistenza finanziaria alle imprese e ai governi – montaggio per conto dei clienti di operazioni di aumento di capitale e di emissione di obbligazioni, assistenza nelle operazioni di fusione ed acquisizione, ecc..

Ma l’atto è stato poi sospeso nel 1999 dall’amministrazione Clinton. Nel frattempo, comunque, le investment bank avevano trasformato in maniera rilevante il loro status giuridico e finanziario. Esse sino al 1970 funzionavano ancora sotto la forma giuridica della partnership e strutturavano le loro operazioni con il capitale fornito dai soci in relazione al fatto che la Borsa di New York proibiva loro di quotarsi sul mercato. Ma dopo la caduta di questo vincolo in quell’anno, tutte a poco a poco prendono la decisione di collocare le loro azioni sul mercato di Borsa. Così i partner potevano incassare delle somme rilevanti e le imprese potevano raccogliere grandi importi di capitale e conseguentemente grandi somme sul mercato dei prestiti.

Comunque, con il tempo, tali banche, a partire sostanzialmente dagli anni ottanta, hanno cominciato a non limitarsi più a svolgere consulenza alle imprese e ai governi sulle questioni finanziarie, ma hanno intravisto grandi possibilità di fare molti più soldi di prima, operando sui titoli, oltre che per conto dei clienti, anche in nome proprio e a inserirsi nelle più spericolate operazioni di derivati –di cui sono state fervidi innovatori-, di subprime, di credit default swaps, di finanziamento delle operazioni degli hedge funds e dei fondi di private equity, anche con la compartecipazione diretta nelle loro avventure.

Le motivazioni di questo mutamento nelle strategie, resa possibile anche dalla loro quotazione in borsa che abbiamo già ricordato, sono state parecchie: a parte l’avidità, che ha marcato, come già accennato, tutta la storia di tali istituzioni, anche il fatto che i grandi clienti, con l’apertura dei mercati internazionali e il miglioramento dei loro conti economici, avevano ormai meno bisogno dei loro servizi e potevano rivolgersi comunque anche alle banche europee e giapponesi; quindi l’attività di consulenza tradizionale era diventata con il tempo un business a bassa redditività; inoltre, va ricordato un mutamento negli assetti azionari delle grandi società industriali e finanziarie del paese, con l’avvento nel loro capitale degli investitori istituzionali, ciò che ha comportato il fatto che esse erano ormai sottoposte a maggiori pressioni per aumentare la loro redditività; né va trascurato il sostanzialmente parallelo passaggio anche ad un sistema retributivo per i manager che prevedeva grandi incentivi legati ai risultati economici.

Così, per effetto delle maggiori risorse anche di debito disponibili, dell’ingresso nei nuovi business, del decollo dei nuovi incentivi economici, il volume d’affari ad esempio della Lehman Brothers è aumentato, tra il 1995 e il 2007, di più di sei volte e i suoi profitti sono cresciuti di più di diciassette volte (Cernow, 2008).

Ma per le imprese di Wall Street, come ha scritto un giornale (Surowiecki, 2008), la quotazione in borsa è stata come l’avere sottoscritto un patto con il diavolo, che si è trasformato in un referendum, minuto per minuto, sulla bontà delle loro operazioni; alla fine, si è arrivati ad un pesante voto di sfiducia. Nel frattempo le autorità regolatrici e di controllo guardavano da un’altra parte.

Bisogna riconoscere, comunque, che la tentazione era stata molto forte e difficilmente resistibile, se si pensa anche al diluvio di denaro che da tutto il mondo si dirigeva, a partire da un certo momento in poi, verso gli Stati Uniti e che chiedeva soltanto di essere afferrato e gestito da qualcuno.

I problemi di questo tipo di banche erano alla fine almeno tre. Il primo riguardava il troppo alto livello di indebitamento: così, prima dello scoppio della crisi, la Goldman Sachs aveva ormai un rapporto tra capitali propri e debiti di uno a trentadue. In caso di difficoltà e di perdite rilevanti tali banche non avevano quindi l’ancora di salvezza rappresentata dai soldi dei depositanti che potevano parare la botta almeno dal punto di vista finanziario, come poteva invece registrarsi nelle banche commerciali. Le banche puntavano poi troppo sull’indebitamento a breve termine garantito dalle operazioni sottostanti e una volta che il mercato dei fondi a breve si è prosciugato il risultato è stato scontato. A parte i rischi finanziari, poi, queste banche si sono presi troppi rischi operativi, puntando su operazioni sulla carta molto redditive, ma molto rischiose. Ma, d’altro canto, se avessero voluto ristrutturare le loro finanze, esse avrebbero dovuto aumentare il capitale proprio e il livello dei debiti a lungo termine, ciò che avrebbe aumentato i loro costi e comunque ridotto la loro redditività. Una grande difficoltà strategica. Così, come a suo tempo ha dichiarato uno dei banchieri poi caduti nella polvere “ sino a che la musica va, bisogna danzare”.

In prospettiva, poi, con la crisi e la conseguente ristrutturazione dei mercati finanziari, la concorrenza sul mercato proprio delle investment bank anche da parte delle banche commerciali dovrebbe aumentare fortemente. Questo non significa che le banche universali, per il momento le vere vincitrici della gara, non presentino anch’esse dei problemi, anche rilevanti, ma in questo momento essi appaiono molto più gestibili. Certo, in futuro, con la concentrazione delle attività finanziarie ormai in pochissime strutture, la prossima crisi potrà risultare ancora più terribile di quella attuale.

 

Bibliografia di riferimento

 

- Chernow R., Wall Street’s slow demise, International Herald Tribune, 30 settembre 2008

 

- Drew J., Kang C., Trejos N., Cultural and structural shifts rise out of risk-taking titans’ hard fall, Washington Post, 21 settembre 2008

 

- www.ft.com, 17 ottobre 2008

 

- Investment banking: is there a future?, The Economist, 18 settembre 2008

 

- Surowiecki J., Public humiliation, The New Yorker, 29 settembre 2008

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