Buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi traggono enormi profitti
In seguito all’inchiesta “Mafia Capitale” i media hanno posto molta enfasi sulla “personalità criminale” di Salvatore Buzzi, il presidente della cooperativa sociale 29 giugno. Ma poco approfondimento è stato fatto sugli elementi sistemici che hanno indotto, e che presumibilmente torneranno a indurre, fenomeni di corruzione nel mondo del non profit. Occorre innanzitutto riflettere sulla relazione di forza tra le amministrazioni locali e i fornitori non profit di servizi. Nel caso romano, risulta evidente che figure chiave dell’amministrazione, con forte potere politico, avevano un tale arbitrio sulla selezione dei fornitori di servizi da poter imporre, nel caso della raccolta rifiuti, una restituzione illecita di tutti gli utili sotto forma di mazzette. Buzzi lo ha detto chiaramente: raccogliendo i rifiuti la sua cooperativa riusciva a mantenere solo i posti di lavoro. Riferendosi ai servizi destinati a rom, migranti e “sottoproletari” dell’emergenza alloggiativa, Buzzi ha invece affermato che “rendono più che la droga”. Risulta evidente che in questo caso l’anello debole della catena erano gli utenti finali del servizio. Nonostante la necessità di restituire parte degli utili alle forze politico-amministrative, l’assenza di voce degli utenti finali consentiva alla cooperativa di recuperare enormi utili erogando servizi di gran lunga inferiori a quelli rendicontati.
In generale, le cooperative sociali che dipendono dai finanziamenti pubblici, pur senza arrivare alla corruzione, devono confrontarsi costantemente con affidatori di servizi che ragionano in termini politici e solo raramente mostrano interesse sul rapporto qualità/prezzo delle offerte che che ricevono (laddove la qualità include i risultati sociali). Le cooperative sociali costruiscono “reti parapolitiche” per facilitare la concertazione con gli affidatori, mostrare i muscoli, rendere evidente il radicamento territoriale e i potenziali pacchetti di voto. Questo implica uno smisurato numero di riunioni, eventi, alleanze, negoziazioni, che rappresentano un “costo di transazione” (somma degli oneri necessari a raggiungere un accordo) spesso insostenibile. Sono ore di lavoro qualificate che costano e che sono ripagate con il denaro dei servizi. Spesso le cooperative fanno molta politica anche al loro interno aumentando ulteriormente il peso dei costi indiretti a carico dei servizi. Non c’è da stupirsi se i loro gruppi dirigenti sviluppano soprattutto forti abilità politiche; dedicarsi allo sviluppo di abilità manageriali sarebbe inutile in un contesto dove, per sopravvivere, esistono altre priorità rispetto all’efficienza del servizio. La presenza attiva e radicata nel tessuto sociale favorisce l’empatia reciproca con cittadini e gli utenti dei servizi e produce efficacia nel riconoscere e risolvere problemi e questioni locali. Ma nella misura in cui questi benefici concreti non siano richiesti per posizionarsi come fornitori di servizi, è normale che il territorialismo tenda a trasformarsi in politica sterile e, nei casi più estremi, in corruzione e clientelismo.
Nel caso degli indumenti usati le cooperative sociali sono attanagliate tra poteri politici e di mercato che esercitano su di esse una relazione di forza quasi assoluta. A differenza della stragrande maggioranza degli altri servizi, quello dello svuotamento dei cassoni gialli non è oggetto di compenso da parte della stazione appaltante; l’ente locale si limita a concedere il monopolio della raccolta in una zona specifica e i costi di operazione e della solidarietà sono coperti grazie alla vendita degli indumenti. Per battere cassa, alcune stazioni appaltanti cominciano addirittura a chiedere alle cooperative affidatarie un contributo per ogni kg di indumenti raccolto. Allo strapotere degli affidatori del servizio si aggiunge il potere degli attori di mercato che, in cambio di poche decine di centesimi al kg, si accaparrano il raccolto. Nella relazione del 2013 della Direzione Nazionale Antimafia è riportato che “le indagini della DDA e svolte dal Sostituto Procuratore Ettore Squillace Greco, hanno dimostrato come buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti”. La camorra controlla il settore dell’intermediazione, e le cooperative non riescono a sviluppare la capacità per dirigersi direttamente al mercato: per farlo dovrebbero aggregare valore ai vestiti con operazioni sofisticate, abilità commerciale, dinamismo manageriale. Elementi che mal si conciliano con gruppi dirigenti che sanno fare soprattutto politica, e ancora più difficili da acquisire considerando che, per missione, le cooperative coinvolgono soggetti svantaggiati a rotazione rapida che non si caratterizzano per alta produttività e ai quali non possono essere trasferiti know how avanzati. Ci sono cooperative che vendono ai camorristi perchè sono intimidate, e ci sono cooperative che, come dimostrano le inchieste romane, arrivano a coinvolgere tra i propri soggetti svantaggiati detenuti mafiosi per favorire le alleanze commerciali con i compratori. Ma, soprattutto, esistono cooperative che usano questi canali perchè non hanno migliori alternative di mercato e perchè, oggettivamente, non hanno la capacità operativa per posizionarsi oltre il primo anello della filiera. I mafiosi sono contenti di questa situazione perchè i cittadini che donano gli indumenti e le istituzioni locali che affidano i servizi vogliono interlocutori stabili, con credibilità territoriale e identità solidale. Senza l’interfaccia e il filtro delle cooperative, la mafia non potrebbe appropriarsi degli indumenti.
Alla luce di questa grave situazione, sarebbe assurdo mettere in discussione l’opportunità di affidare servizi territoriali agli attori non profit e agli enti con vocazione solidale. Non si può gettare il bambino con l’acqua sporca. Il vero nocciolo della questione sono i rapporti di forza. Come può recuperare il non profit un rapporto di forza favorevole nelle filiere in cui opera? Come restituire un’autentica centralità alla solidarietà, al contatto con il territorio e all’inclusione sociale? Probabilmente le soluzioni sono due:
a) Trasparenza. I cittadini donatori devono prendersi il diritto di sapere per filo e per segno cosa accade con i loro indumenti: in che misura generano profitti, in che misura generano utilità collettiva. Devono pretenderè che i risultati sociali non siano presentati vagamente ma in modo quantificato, misurato e verificabile; i cittadini devono sapere nome, cognome e condotta non solo di chi ritira gli abiti ma anche di tutti gli intermediari e gli operatori finali. Sicuramente non offrirebbero la loro partecipazione a filiere dove esistono infiltrazione mafiosa, contrabbando, sfruttamento minorile, smaltimento illegale nella terra dei fuochi, trattamento iniquo degli operatori ambulanti africani che sono vittima dell’arbitrio dei grossisti.
b) Una riforma del sistema degli appalti. Agli amministratori locali non va concesso arbitrio. Zero tolleranza per gli affidamenti diretti in regime esclusivo e requisiti più stringenti in campo ambientale e sociale. I risultati ambientali e sociali devono essere misurati e rendicontati con evidenza pubblica, la trasparenza verso il cittadino deve essere obbligatoria. Le cooperative che producono risultati sociali concreti grazie al loro radicamento sul territorio, quelle che fanno più solidarietà reale, quelle più efficaci nell’inclusione sociale, devono essere premiate per i loro risultati.
In un regime di trasparenza verso il cittadino e in presenza di bandi adeguati, le cooperative interessate a ricevere le donazioni e svuotare i cassoni gialli dovranno competere per offrire ai cittadini e alle istituzioni le filiere più giuste, quelle più presentabili, quelle che, globalmente, creano più solidarietà concreta. Ora invece devono competere solo per accaparrarsi la benevolenza dei politici-amministratori, ed affannarsi per vendere al miglior offerente ciò che raccolgono. Nel nuovo auspicabile scenario, le cooperative sociali e quelle che fanno solidarietà avranno maggiori chance di posizionarsi rispetto ad altri attori grazie alla loro capacità di produrre risultati sociali. Aumenteranno il loro rapporto di forza con la politica e con il mercato senza dover snaturare loro stesse per rimanere a galla. Potranno dedicare più forze al miglioramento del servizio e alla solidarietà concreta e risparmiare sforzi in politica. Saranno indotte a scegliere con maggiore cura i loro canali commerciali, e potranno imporre a questi ultimi comportamenti più giusti.
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