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Pietro Ingrao

La nostra tribù, mai una corrente

30/09/2015

L’ascolto degli altri e l’idea della politica come partecipazione, due caposaldi dell’ingraismo che valgono assai più di ogni ortodossia. Perché restano una buona bussola per un nuovo impegno

Quando chi viene a man­care ha più di cent’anni all’evento si è pre­pa­rati, e dun­que il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, per­ché pro­prio la loro lunga vita ci ha finito per abi­tuare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eter­nità. Pie­tro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tan­tis­simi di noi che è dif­fi­cile per­sino pen­sare alla sua morte senza pen­sare alla pro­pria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altret­tanto vecchi).

Così, quando dome­nica mi ha rag­giunto la tele­fo­nata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ram­blas a Barcel­lona dove, essendo di pas­sag­gio per la Spa­gna, mi ero fer­mata per aspet­tare i risul­tati elet­to­rali della Cata­lo­gna, il suo tri­stis­simo annun­cio è stato quasi una fuci­lata. Per­ché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse aspor­tato un pezzo del mio stesso corpo.

Così, io credo, è stato per tutta la lar­ghis­sima tribù chia­mata «gli ingra­iani», qual­cosa che non è stata mai una cor­rente nel senso stretto della parola per­ché la nostra intro­iet­tata orto­dos­sia non ci avrebbe nep­pure con­sen­tito di imma­gi­nare tale la nostra rete.

E però siamo stati forse di più: un modo di inten­dere la poli­tica, e dun­que la vita, al di là della spe­ci­fi­cità delle ana­lisi e dei pro­grammi che soste­ne­vamo. Sic­ché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingra­iani sono in qual­che modo distingui­bili, seb­bene le loro scelte indi­vi­duali siano andate col tempo diver­gendo, den­tro e fuori del Mani­fe­sto; e poi den­tro e fuori le suc­ces­sive labili rein­car­na­zioni del Pci. Oggi poi — den­tro una sini­stra che fatica a rico­no­scere i pro­pri stessi con­no­tati e nes­suno si sente a casa pro­pria dove sta per­ché vor­rebbe la sua stessa casa diversa da come è – que­sto tratto sto­rico dell’ingraismo direi che pesa in cia­scuno anche di più.

Vor­rei che non si per­desse, per­ché al di là delle scelte diverse cui ha con­dotto cia­scuno di noi, è un patri­mo­nio pre­zioso e utile anche oggi.

Di quale sia stato il nucleo forte del pen­siero di Pie­tro Ingrao, ho già par­lato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il mani­fe­sto ha dedi­cato ai suoi cent’anni, ripro­po­sto on line pro­prio ieri. Vor­rei che quelle sue ana­lisi e linee programmatiche che pur­troppo il Pci non fece pro­prie, non venisse anne­gato, come è acca­duto per Enrico Ber­lin­guer, nella reto­rica ridut­tiva e stra­vol­gente dell’“era tanto buono, bravo one­sto, ci dà corag­gio e passione”.

Oggi, comun­que, di Pie­tro vor­rei affi­dare alla memo­ria soprat­tutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della poli­tica come, innan­zi­tutto, par­te­ci­pa­zione e per­ciò sog­get­ti­vità delle masse.

Quando incon­trava qual­cuno, o anche nelle riu­nioni e per­sino nel dia­logo con un com­pa­gno ai mar­gini di un comi­zio, era sem­pre lui che per primo chie­deva: “ma tu cosa pensi?”; “come giu­di­chi quel fatto?”; “cosa pro­por­re­sti?”. Non era un vezzo, voleva pro­prio saperlo e poi stava a sen­tire. Per­ché il suo modo di essere diri­gente stava nel cer­care di inter­pre­tare il sen­tire dei com­pa­gni. Anche di por­tare le loro idee a un più alto livello di ana­lisi e pro­po­sta, cer­ta­mente, ma sem­pre a par­tire da loro, per arri­vare, assieme a loro, e non da solo, a una con­clu­sione, a una scelta.

Per que­sto quel che per lui con­tava, quello che a suo parere qua­li­fi­cava la demo­cra­zia e la qua­lità di un par­tito, era la par­te­ci­pa­zione, la capa­cità di sti­mo­lare il pro­ta­go­ni­smo, la sog­get­ti­vità delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teo­ria né prassi significativa.

Non voglio espli­ci­tare para­goni con l’oggi, sarebbe impietoso.

Ros­sana, rispon­dendo ad un’intervista di La Repub­blica, ieri ha detto di Pie­tro, anche della sua reti­cenza nell’assumere posi­zioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingra­iani doc”, ope­rammo la rot­tura della pub­bli­ca­zione della rivi­sta Il mani­fe­sto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiu­tava lo scio­gli­mento del par­tito pro­po­sto dalla mag­gio­ranza occhet­tiana, pur rico­no­scen­dosi nella rela­zione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da com­piere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifon­da­zione, e chi — come Pie­tro — decise invece che sarebbe comun­que restato nell’organizzazione, il Pds, che, già mala­tic­cio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rima­sta scol­pita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pie­tro si fosse unito alla costru­zione di un nuovo sog­getto poli­tico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifon­da­zione comu­ni­sta più ricca e dav­vero rifon­da­tiva, per via del suo per­so­nale apporto ma anche di quella larga area di qua­dri ingra­iani che costi­tuiva ancora un pezzo vivo del Pci e sareb­bero stati pre­ziosi alla nuova impresa; e invece resta­rono invi­schiati e di mala­vo­glia nel lento depe­rire degli orga­ni­smi che segui­rono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.

Pie­tro però capì subito che stare in quel con­te­sto non era più “stare nel gorgo”, per­ché il gorgo, seb­bene assai inde­bo­lito, scor­reva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impe­gnò nei movi­menti che gene­ra­zioni più gio­vani ave­vano avviato. E da que­sti fu ascoltato.

La sto­ria come sap­piamo non si fa con i se. Ma riflet­tere su quel pas­sag­gio sto­rico, per ragio­nare sugli errori com­piuti, da chi e per­ché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cer­cando di costruire un nuovo sog­getto politico.

Per farlo nascere bene mi sem­bra comun­que essen­ziale por­tarsi die­tro l’insegnamento fon­da­men­tale di Pie­tro, che non è infi­ciato dal non avere, qual­che volta, ten­tato abba­stanza: che non c’è par­tito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diven­tare una forza in grado di sol­le­ci­tare la sog­get­ti­vità popo­lare, per­ché que­sta è più pre­ziosa di ogni ortodossia.

Ma vor­rei che di Pie­tro ci por­tas­simo die­tro anche l’ottimismo della volontà.

Era lui che amava citare la famosa para­bola di Bre­cht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comu­ni­smo ita­liano). Come ricor­de­rete, il sarto insi­steva che l’uomo avrebbe potuto volare, fin­ché, stufo, il vescovo prin­cipe di Ulm gli disse “prova” e que­sti si gettò dal cam­pa­nile con le fra­gili ali che si era costruito. E natu­ral­mente si sfra­cellò. Bre­cht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Per­ché alla fine l’uomo ha volato. È la para­bola del comu­ni­smo: fino ad ora chi ha pro­vato a rea­liz­zarlo su terra si è sfra­cel­lato, ma alla fine, come è acca­duto con l’aviazione, ci riusciremo.

È que­sto l’impegno che nel momento della scom­parsa del nostro pre­zioso com­pa­gno Pie­tro Ingrao vor­rei pren­des­simo: di provarci.

 

il manifesto 29 settembre 2015

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