L’ascolto degli altri e l’idea della politica come partecipazione, due caposaldi dell’ingraismo che valgono assai più di ogni ortodossia. Perché restano una buona bussola per un nuovo impegno
Quando chi viene a mancare ha più di cent’anni all’evento si è preparati, e dunque il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, perché proprio la loro lunga vita ci ha finito per abituare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eternità. Pietro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tantissimi di noi che è difficile persino pensare alla sua morte senza pensare alla propria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altrettanto vecchi).
Così, quando domenica mi ha raggiunto la telefonata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ramblas a Barcellona dove, essendo di passaggio per la Spagna, mi ero fermata per aspettare i risultati elettorali della Catalogna, il suo tristissimo annuncio è stato quasi una fucilata. Perché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse asportato un pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi — dentro una sinistra che fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è – questo tratto storico dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica riduttiva e stravolgente dell’“era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto, partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa pensi?”; “come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi — come Pietro — decise invece che sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato abbastanza: che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova” e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo ha volato. È la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
È questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.
il manifesto 29 settembre 2015
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