È giusto che a farsi carico di politiche creditizie sbagliate sia ancora una volta lo Stato? L'esempio (da non replicare) del governo spagnolo che a fine 2012 ha creato la sua bad bank
Lanciata ad inizio 2014 da banchieri e funzionari pubblici come soluzione ottimale al problema della stretta creditizia, l’ipotesi di costituire una bad bank sta prendendo corpo lontano dal clamore dei media. La “banca cattiva” non sarebbe altro che un contenitore finanziario in cui far confluire i crediti deteriorati, in gergo tecnico non performing loans (Npl). Semplificando, tramite la costituzione di una o più bad bank, le banche si libererebbero di questi crediti non performanti, vendendoli a prezzo scontato ad uno strumento ad hoc, partecipato da investitori di diversa natura.
Per capire meglio le modalità e la portata di una manovra di questo genere, basta considerare i possibili numeri dell’operazione. I dati sulle sofferenze bancarie degli istituti nostrani portano ad ipotizzare che quest’ultimi possano cedere Npl per circa 200 miliardi di euro (ma c’è chi sostiene che si possa arrivare a 300 miliardi di cessioni). Sempre ipotizzando una cessione a sconto del 50% circa sul controvalore a bilancio, la bad bank potrebbe far confluire circa 100 miliardi di denaro fresco nelle casse delle banche, che si andrebbero ad aggiungere allo sblocco degli accantonamenti per fronteggiare le eventuali perdite collegate ai prestiti a rischio. Una situazione molto interessante per il sistema bancario nazionale, anche perché tramite la deducibilità delle passività, le banche potrebbero recuperare gran parte delle perdite – nel nostro schema, 100 miliardi di euro - trattenendo per sé le tasse (Ires ed Irap) che avrebbero dovuto versare allo Stato. Questo meccanismo è divenuto ancora più vantaggioso per banche e assicurazioni con l’ultima legge di stabilità, che ha sancito la variazione dei termini della deduzione delle perdite, riportata a 5 anni contro i 18 precedenti.
Il caso spagnolo e i suoi rischi
In tutte le ipotesi sin qui circolate, si fa sempre riferimento al caso spagnolo, che ha messo in moto un meccanismo simile a fine 2012, tramite la costituzione della Sareb. Inserita dalla Troika tra le condizioni chiave per la concessione di un prestito europeo di 37 miliardi di euro per ricapitalizzare le casse di risparmio locali, la Sareb è nata per raccogliere attivi problematici. Lo stato iberico ha versato il 45% del capitale, mentre il restante 55% è stato acquistato da alcune grandi banche internazionali come Barclays e Deutsche Bank e da una schiera di banche nazionali. Ad oggi, Sareb ha ricevuto in carico circa duecentomila cespiti, per un valore complessivo di 51 miliardi, di cui almeno 11 relativi ad immobili. L’obiettivo della società è di recuperare l’investimento, vendendo entro quindici anni crediti ed immobili alle migliori condizioni possibili.
La gestione degli immobili confluiti in Sareb è il primo punto critico da analizzare. Come ovvio, la nuova società non è stata creata per risolvere l’emergenza abitativa creatasi in seguito alla crisi in Spagna né per realizzare una gestione sociale degli immobili. L’unico obiettivo è evitare il fallimento del sistema finanziario spagnolo e stabilizzare il mercato immobiliare. Così, come sottolineato anche dai movimenti sociali spagnoli, nella gestione degli immobili non si è tenuto conto né delle case abitate né di quelle per cui si stavano negoziando affitti sociali. In pratica Sareb sta lavorando da ufficiale giudiziario di sistema, organizzando sfratti forzosi e rimettendo poi in circolo gli immobili acquistati a saldo dalle banche. Addirittura, in alcuni casi Sareb ha ordinato la demolizione di immobili non ancora terminati per ridurre l’eccesso di offerta sul mercato. C’è da dire che la bolla del mercato immobiliare spagnolo è esplosa in modo incredibile a partire dal 2007, con i prezzi delle case che sono diminuiti anche del 60% a Madrid e Barcellona. Tuttavia, non si può non segnalare la follia di un sistema di recupero forzoso di crediti a forte partecipazione pubblica, con lo Stato azionista di maggioranza relativa di un ente che sfratta i cittadini travolti dalla crisi senza offrire alternative, il tutto per restituire i soldi presi in prestito dalla Troika e stabilizzare il mercato interno.
Proprio la presenza dello Stato, e la sua garanzia sulla Sareb, è il secondo punto da analizzare per capire la portata di una bad bank italiana. Operazioni su numeri così grandi, e con un tasso di rischio così elevato, attirano investitori internazionali solo in presenza di forti garanzie. In Spagna è lo Stato stesso ad essersi “offerto” come garante dell’operazione, con la conseguenza che eventuali perdite della Sareb saranno coperte e garantite dall’intervento pubblico. In sostanza siamo di fronte ad un doppio meccanismo di socializzazione delle perdite, prima con lo Stato azionista di maggioranza della bad bank, ed in seguito tramite la garanzia pubblica sulle eventuali perdite della stessa. Un meccanismo mostruoso, che in Italia può essere replicato solo lavorando al di fuori del perimetro del debito pubblico “ufficiale”.
Le due ipotesi italiane
In effetti, mentre in Spagna il debito pubblico equivale al 93% del PIL, in Italia siamo ben oltre il 130%. Come sottolineato a gennaio dall’allora ministro dell’economia Saccomanni, sarebbe quindi impensabile pensare ad un coinvolgimento pubblico diretto nell’operazione. Per questo motivo, una delle ipotesi che ha preso quota nelle scorse settimane riguarda il coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti. La cassaforte del risparmio postale, di proprietà all’80% del Ministero dell’economia e partecipata dalle fondazioni bancarie per il restante 20%, rappresenterebbe il partner ideale per un’operazione di sistema. CDP potrebbe coprire una quota consistente, per poi successivamente emettere obbligazioni da collocare sul mercato.
Fortunatamente, negli ultimi giorni la pista CDP sembra essersi raffreddata dopo la smentita dello suo presidente Franco Bassanini, che si è detto contrario ad un intervento della Cassa sugli NPL delle banche italiane.
Al momento rimane quindi in campo un’altra ipotesi, più articolata e che prevede la costituzione di due o forse tre differenti entità. In effetti, Intesa San Paolo ed Unicredit, i due istituti bancari più grandi, sono già al lavoro per costruire dei veicoli interni o un veicolo unico in joint venture in cui far confluire i crediti deteriorati. In questo caso, gli istituti più grandi potrebbero lavorare in autonomia, mentre per gli istituti medi e piccoli si aprirebbe la strada ad una bad bank unica. Questo schema è stato rilanciato pochi giorni fa dal governatore di Bankitalia Visco, che ha anche aperto per la prima volta all’ipotesi di una garanzia pubblica proprio sui cespiti che potrebbero confluire nella bad bank unica degli istituti meno grandi.
Il grande assente: l’interesse pubblico
Indipendentemente da come andrà a finire, la discussione e le ipotesi circolate intorno alla questione bad bank, sollevano un enorme problema di merito. In tutte le uscite pubbliche, lo Stato viene tirato in ballo sempre come garante delle operazioni, come possibile azionista, come facilitatore e mediatore politico, mentre nessun decisore politico o funzionario dello Stato si è mai preoccupato di esaminare la questione dal punto di vista dei diritti e del bene comune.
Ci sono almeno tre nodi cruciali sui quali una politica seria e responsabile dovrebbe intervenire.
In primo luogo, qualsivoglia garanzia pubblica o coinvolgimento diretto del pubblico o di enti riconducibili ad esso come CDP dovrebbe essere esplicitamente esclusa. Non si capisce in effetti perché, se la crisi del settore è stata determinata da politiche creditizie sbagliate da parte delle banche, il conto debba essere pagato dallo Stato o dai poveri risparmiatori postali, che si vedrebbero coinvolti in un’operazione alquanto rischiosa.
Secondo, andrebbe chiaramente definito un percorso per evitare che la spinta alla “valorizzazione” dei patrimoni immobiliari confluiti nelle bad bank possa alimentare la spirale dell’emergenza abitativa. I numeri forniti dal Ministero degli Interni parlano chiaro: tra 2002 e 2012 i provvedimenti di sfratto per morosità emessi dai tribunali sono aumentati del 121,9%, con una forte impennata registratasi a partire dal 2007. Stante questa situazione, servirebbe un intervento chiaro per evitare il precipitare della situazione e per neutralizzare i rischi connessi con operazioni finanziarie di grandi dimensioni sugli immobili.
Infine, sarebbe necessario che la politica operasse a difesa del piccolo risparmio. Operazioni di questo tipo e di questa grandezza, sono sempre connesse ad una successiva cartolarizzazione del debito stesso tramite l’emissione di obbligazioni. L’intervento pubblico servirebbe per sancire chiaramente il divieto di vendita di strumenti di questo tipo a piccoli risparmiatori e più in generale ad operatori non specializzati. Così come è inaccettabile che il conto di operazioni così delicate possa essere pagato dalle finanze pubbliche, è altrettanto intollerabile che, al termine di complicati passaggi finanziari, il rischio possa essere spalmato su di un’ampia platea di risparmiatori, per lo più non consapevoli delle criticità connesse a strumenti finanziari così complessi.
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