Un ruolo crescente sullo scacchiere politico-economico, con poca voglia di esercitarlo. E banche piene di guai. Il ristagno tedesco nella crisi economica e finanziaria europea
La crisi economica in atto ha messo in grande rilievo, tra le altre cose, alcune spinte molto contraddittorie che sembrano toccare in questo momento la Germania. Il paese, che, dopo la caduta del muro, ha registrato grandi mutamenti strutturali, economici, culturali, sociali (Anderson, 2009), da una parte vede ora, apparentemente, il suo peso politico crescere fortemente sullo scacchiere europeo e su quello mondiale, mentre dall’altra deve invece registrare un grave disastro sul fronte economico interno. In relazione anche alla complessità delle sfide che sono da affrontare, ne risulta, almeno per il momento, un rilevante immobilismo dell’attuale gruppo dirigente del paese, molto cauto, diviso ed incerto sulle decisioni concrete da prendere sui vari fronti, da quello economico, a quello politico, a quello sociale.
Anche lo scoppio recente del caso Opel e le possibili ricette alternative avanzate dalle varie parti per risolverlo tendono a sottolineare questa situazione di importanti incertezze strategiche. Il tutto è ovviamente complicato dall’approssimarsi delle elezioni politiche, che si svolgeranno in settembre.
Le novità politiche
Intanto ricordiamo le novità che si intravedono a livello politico. Esse si concentrano su tre punti specifici.
E’ uscito da poco il n. 3, 2009, della rivista Limes (Limes, 2009); in essa si analizza l’ipotesi, che poteva sembrare fantascientifica solo pochi mesi fa, di un raggruppamento politico che si potrebbe formare tra la Russia e l’Europa – l’Eurussia, come qualcuno già chiama questa possibile unione- in un non troppo distante futuro. Naturalmente, la Germania sarebbe al centro non solo geografico, ma anche politico, di tale eventuale costruzione e costituirebbe inevitabilmente, insieme alla stessa Russia, il nucleo duro dell’iniziativa.
Nel numero della rivista citato si ricordano, tra l’altro, i crescenti legami economici che si possono già registrare tra la stessa Germania e la Russia, a partire dai grandi progetti energetici nei settori del petrolio e del gas, oltre che in quello dell’energia nucleare – in questo ultimo comparto i tedeschi hanno rotto di recente i precedenti accordi con i francesi per stringere invece un’intesa con i russi. Anche la questione Opel, che non sappiamo al momento come potrà andrà a finire, vede la presenza di forze molto potenti che spingono per un accordo con i russi della Gaz, alleati alla Magna, invece che con la Fiat. I dati indicano poi che la presenza produttiva e commerciale della Germania in Russia appare oggi come estremamente significativa e crescente; le strade, le fabbriche e le case russe sono invase dai prodotti tedeschi, come documenta la stessa rivista e sempre la Germania rappresenta oggi per Mosca il paese di riferimento obbligato.
Parallelamente, appare una constatazione diffusa negli ambienti finanziari internazionali quella che la crisi economica e finanziaria attuale dei paesi dell’est e del centro Europa, in particolare nel caso in cui essa si dovesse aggravare, non si potrà risolvere pienamente senza il diretto intervento finanziario tedesco; solo la Germania possiede, in effetti, le capacità finanziarie necessarie alla risoluzione dei problemi, in un’area geografica che costituisce peraltro da sempre uno sbocco pressoché “naturale” al know-how e ai capitali tedeschi.
Lo stesso problema si intravede peraltro anche all’ovest. Vogliamo a questo proposito ricordare la tormenta che ha toccato negli scorsi mesi in qualche modo diversi paesi della zona euro e come, ancora oggi, si presenti all’orizzonte qualche minaccia rappresentata dal possibile aggravamento della situazione finanziaria degli stati deboli dell’area. Ebbene, qualche rappresentante del governo tedesco, per calmare le acque, è stato costretto a dichiarare di recente che in caso di crisi la Germania interverrà con tutto il suo peso finanziario. I tedeschi sembrano in particolare preoccupati in questo momento della situazione economica di Italia e Grecia (Castle, 2009).
Va, d’altra parte, segnalato il fatto che il paese, che è stato tradizionalmente in passato il più europeista di tutti, spingendo, in particolare contro la palese riluttanza della Francia, ad allargare l’Unione Europea ad est e pagando una parte consistente della fattura, negli ultimi anni è diventato invece meno aperto su questo fronte; così, ad esempio, esso mantiene ancora rilevanti restrizioni all’ingresso dei lavoratori provenienti dagli otto stati dell’est che hanno raggiunto l’Unione nel 2004. Di recente, poi, esso ha posto il veto alla creazione di un fondo europeo per salvare le banche e ha fatto molta resistenza ad un piano di stimoli, sempre a livello europeo, per combattere la crisi. Si è dichiarata, inoltre, contraria ad una banca alimentare europea a favore dei poveri, così come ha mostrato molta ostilità all’ipotesi della creazione di obbligazioni europee (The Economist, 2009, a).
L’andamento dell’economia
I fatti sopra citati sembrano indicare la tendenza ad un ruolo oggettivamente crescente della Germania in Europa e la sua accresciuta centralità negli equilibri di potere del continente, contemporaneamente però ad una sua crescente riluttanza ad assumersi l’onere della carica. D’altro canto, le notizie che arrivano dal fronte economico e finanziario interno non si presentano certo come molto brillanti.
Dalle previsioni più aggiornate dello stesso governo tedesco giunge l’indicazione che nel 2009 il pil del paese dovrebbe diminuire del 6%, con un risultato addirittura peggiore di quello dell’Italia, paese per il quale le indicazioni attuali sono per una riduzione del pil del 4,4%. La Germania farebbe così poco meglio del Giappone, che vede le previsioni recenti fissare una probabile riduzione del pil del 6,2% nello stesso anno. Il ministro dell’economia tedesco, inoltre, stima che ben 1,5 milioni di persone perderanno il loro posto di lavoro tra il 2009 e il 2010 (Benoit, 2009, a), portando così, alla fine del periodo, ad un totale di 4,6 milioni di disoccupati.
Come per il Giappone, il principale determinante della caduta economica tedesca è costituito dal crollo del sue esportazioni, che pesano in maniera molto forte sull’andamento dell’economia. Così, tra il 2004 e il 2007 le esportazioni nette del paese hanno pesato in media per il 60% sulla crescita. Il settore meccanico e quello chimico costituiscono poi oggi circa i due terzi del totale di tali sbocchi. Il surplus delle partite correnti ha così raggiunto nel 2008 il 6% del pil (The Economist, 2009, b). La Germania è ancora oggi il primo esportatore mondiale, anche se ormai incalzato dalla Cina. Ora esse dovrebbero ridursi del 19% nel 2009.
Invece, per quanto riguarda i consumi interni, mentre essi sono arrivati a toccare all’incirca il 75% del pil negli Stati Uniti, per la Germania essi pesano attualmente soltanto per il 56% del totale.
Qualcuno tende a suggerire che se l’economia del paese è diventata dipendente in maniera crescente dalle esportazioni negli ultimi dieci anni, questo è dovuto più alla persistente debolezza dei consumi interni che all’accelerazione della crescita della esportazioni. Mentre così, paradossalmente, negli Stati Uniti e la Gran Bretagna, per superare la crisi economica, bisognerebbe che i loro consumatori molto indebitati cominciassero a risparmiare –c’è peraltro qualche indicazione che essi abbiano cominciato a farlo-, la Germania avrebbe invece bisogno che i propri cittadini cominciassero a spendere (Lex, 2009).
Ma, mentre in Giappone almeno la consapevolezza della necessità di contare molto di meno di prima sulle esportazioni tende ad essere un sentimento ormai diffuso, in Germania invece le recenti dichiarazioni del gruppo dirigente del paese, a partire da quelle della Merkel, sottolineano che i due partiti principali sono uniti dall’idea che le esportazioni debbano restare il fondamento delle prosperità tedesca (The Economist, 2009, b). Buona fortuna.
Per altro verso, sono la sinistra politica interna e il settore sindacale che insistono da molto tempo per il varo di misure che stimolino la domanda interna. Già diversi anni fa Oskar Lafontaine, allora presidente dell’SPD, diventato poi ministro delle finanze, aveva cercato di spingere in direzione di una politica che fosse orientata verso misure di tipo keynesiano (Anderson, 2009), ma, presto sconfitto, aveva lasciato il governo ed anche il partito. Schroeder scelse invece, subito dopo, l’ortodossia monetaria e pensò soprattutto a mettere il bilancio in equilibrio; il successivo ministro delle finanze ridusse le tasse alle imprese invece che ai consumatori. La crescita è rimasta comunque a livelli molto bassi (Anderson, 2009).
La misure prese più complessivamente dal governo Schroeder hanno portato ad una crescente diseguaglianza e ad un’accresciuta insicurezza sociale nella popolazione. Il governo SPD-verdi ha, tra l’altro, almeno in parte, deregolamentato il mercato del lavoro, incoraggiato ed anche direttamente favorito una riduzione nel livello di crescita dei salari e del costo del lavoro –quest’ultima misura è stata ottenuta anche riducendo le indennità di disoccupazione-, spingendo anche verso la delocalizzazione all’estero di molte attività.
Bisogna in ogni modo considerare che la Germania ha una struttura economica ancora oggi centrata su di una fortissima base industriale, che deve poi trovare degli sbocchi in giro per il mondo, mentre il settore dei servizi appare relativamente poco sviluppato e che i tedeschi come popolo sono molto prudenti nella spesa, ancora memori, tra l’altro, della grande crisi finanziaria degli anni venti del secolo precedente. La situazione dell’economia tedesca e il comportamento dei consumatori è da mettere però anche in relazione alle riforme portate avanti, oltre che dal governo Schroeder, anche da quello attuale. Così quest’ultimo, per ridurre dei buchi di bilancio, ha aumentato di tre punti l’Iva. Tutto questo non ha contribuito certo a spingere le famiglie ad aumentare i loro consumi.
Siamo ora in periodo elettorale e così il governo ha deciso, in questi giorni, di smantellare, almeno in parte , alcune delle riforme relative al settore della sicurezza sociale del periodo Schroeder; in particolare, esso ha bloccato i tagli al sistema pensionistico che l’anno prossimo avrebbero toccato venti milioni di persone, dal momento che dal 2001 le pensioni sono indicizzate all’andamento dei salari (Benoit, 2009, b); inoltre, la durata nel tempo dell’indennità di disoccupazione è stata portata da 18 a 24 mesi.
Comunque, ad onor del vero, il sentimento nei circoli economici sembra cominciare a migliorare e qualcuno si azzarda a prevedere che la crescita, sia pure in proporzioni modeste, possa tornare a farsi viva verso la fine dell’anno. Dovrebbero contribuire a tale possibile risultato anche i programmi di stimolo varati, dopo molte esitazioni, dal governo federale e che ammontano a circa 80 miliardi di euro. Ma questo sforzo porterà peraltro ad un deficit pubblico del 6% nel 2010, ciò che per i tedeschi rappresenta certamente uno scandalo, visto che sono loro ad avere sostanzialmente inventato i criteri di Maastricht.
Si pensa in ogni caso ad una crescita complessiva dell’economia inferiore in media all’1% nei prossimi anni.
La crisi bancaria
Abbiamo appreso di recente e con grande sorpresa che l’ammontare delle attività tossiche presenti nelle banche tedesche ammonta a più di 800 miliardi di euro (1,1 miliardi di dollari), la gran parte delle quali concentrate nelle Landesbanken, controllate in genere dai governi regionali e dalle casse di risparmio locali. In questo caso le perdite non sono originate, come commenta l’Economist (The Economist, 2009, c), da dei banchieri anglosassoni avidi di incentivi e di bonus, ma da dei pubblici funzionari ben intenzionati. Bisogna a questo proposito sapere che, almeno sino al 2005, i debiti delle Landesbanken erano garantiti dai governi locali e questo permetteva alle stesse banche di prendere a prestito i soldi e di prestarli a tassi più bassi di quelli della concorrenza. Esse potevano poi prestare con liberalità, non dovendo sopportare le eventuali perdite.
La crisi potrebbe comunque contribuire a aiutare il necessario processo di ristrutturazione del sistema, che vede un numero troppo grande di banche, con un livello di redditività mediamente molto basso. Peraltro, sino a ieri i vari stati che compongono il sistema federale erano contrari a qualsiasi processo di fusione e integrazione tra i vari istituti, processo che ora non sono più in grado di contrastare. Il processo di integrazione dovrebbe interessare anche le casse di risparmio.
Conclusioni
Anche in questo caso, come in quello del Giappone, esaminato in un articolo precedente, una ripresa consistente dell’economia si rivela come molto difficile, in particolare per le complicazioni legate ad un’eventuale difficile consistente ripresa delle esportazioni e per la solo modesta possibilità di incremento dei consumi interni. Ma, forse, questi elementi potrebbero portare ad una spinta ulteriore verso un abbraccio, sia pure misurato, con la Russia, ciò che potrebbe aprire la porta a mercati, investimenti, progetti. In ogni caso, si conferma, anche con il caso della Germania, al di là delle difficoltà ulteriori portate dalla crisi, la presenza di una tendenza di fondo delle economie sviluppate ad una loro stagnazione strutturale, tendenza che appare molto difficile da combattere.
Testi citati nell’articolo
- Anderson P., A new Germany?, New Left Review, n. 57, maggio-giugno 2009
- Benoit B., Germany slashes 2009 growth forecast, www.ft.com, 29 aprile 2009, a
- Benoit B., Merkel pledge sparks fears for survival of welfare system, The Financial Times, 9/10 maggio 2009, b
- Castle S., Germany predicts 6% srinkage in economy, The New York Times, 30 aprile 2009
- Limes, Eurussia, il nostro futuro?, n. 3, 2009
- The Lex column, The Rhineland muddle, The Financial Times, 30 aprile 2009
- The Economist, Those selfish Germans, 30 aprile 2009, a
- The Economist, The export model sputters, 7 maggio 2009, b
- The Economist, The sick banking system of Europe, 7 maggio 2009, c
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