Vicolo cieco a Bruxelles/4 Come vent'anni di integrazione all'insegna del potere della finanza e delle politiche neoliberiste stanno distruggendo il senso comune di appartenenza all'Unione
Vent'anni di integrazione all'insegna del potere della finanza e delle politiche neoliberiste hanno condotto l'Europa in una strada senza uscita. Alle elezioni di maggio è in arrivo un'ondata populista anti-europea, che avrà il segno di una reazione nazionalista. Ecco le possibili vie d'uscita dall'austerità e dalla depressione, all'insegna di democrazia, giustizia economica e sociale Le politiche liberiste di rigore imposte ai paesi dell'Europa del sud dagli organi comunitari, e per il loro tramite dai mercati finanziari, non soltanto si sono rivelate fallimentari sul piano economico e disastrose sul piano sociale. Non solo hanno aggravato la crisi da esse stesse provocata, scaricandone i costi sui più poveri, aggredendo il lavoro e lo stato sociale e provocando la crescita della disuguaglianza e della disoccupazione. Esse stanno distruggendo, in tutti i paesi che ne sono stati colpiti, il senso comune di appartenenza all'Unione, avvertita sempre più apertamente da masse crescenti come una potenza estranea ed ostile. Sono questi il danno e il prezzo più gravi che stiamo pagando per queste politiche irresponsabili: lo sviluppo di un anti-europeismo di massa, rabbioso e rancoroso, che è stato immediatamente intercettato, non solo in Italia ma in gran parte dei paesi europei, dai tanti demagoghi in circolazione. Queste politiche non sono state soltanto il frutto di scelte antisociali, subalterne ai dettami della finanza speculativa. Esse sono state possibili grazie a un processo decostituente sviluppatosi attraverso la rimozione, dall'orizzonte della politica, di tutti i principi del costituzionalismo democratico sanciti in tutte le carte dei diritti, nazionali ed europee: la soggezione alla legge dei poteri politici e dei poteri economici, i principi di uguaglianza e dignità delle persone, i diritti fondamentali e vitali alla salute, all'istruzione e alla sussistenza, i diritti dei lavoratori e, in generale, l'intero diritto del lavoro conquistato in più di un secolo di lotte. Il processo decostituente, inoltre, non ha colpito soltanto la democrazia del nostro paese e degli altri paesi impoveriti dalla crisi. Esso ha investito lo stesso diritto comunitario europeo, violato nei suoi fondamenti sia sul piano delle forme che su quello dei contenuti. Sul piano delle forme è stato violato, dagli Stati membri dell'Unione, lo stesso Trattato costituzionale europeo. In Italia, come è noto, con la legge costituzionale n.1 del 20 aprile 2012 è stato modificato, oltre tutto con la maggioranza dei due terzi onde evitare il referendum confermativo, l'articolo 81 della Costituzione, nel quale è stato introdotto il vincolo del pareggio di bilancio imposto dall'art.3, n.1, lett. a) del Trattato cosiddetto Fiscal Compact approvato, il 2 marzo 2012, da 25 dei 27 paesi dell'Unione. Poco dopo, con la legge n.114 del 23 luglio 2012, è stato ratificato l'intero Trattato, che oltre al vincolo del pareggio o dell'avanzo di bilancio prevede, nell'art.4, l'obbligo degli Stati di pagare nei prossimi venti anni il loro debito eccedente il 60% del Pil nella misura di un ventesimo l'anno: una misura micidiale equivalente, per l'Italia, a più di 40 miliardi l'anno.
Ebbene, come ha ripetutamente mostrato Giuseppe Guarino, sicuramente tra i nostri più insigni costituzionalisti, queste norme del Fiscal Compact, dall'Italia così zelantemente ratificate e in parte perfino costituzionalizzate, sono illegittime perché in contrasto con il Trattato costituzionale europeo, che in tutte le sue successive versioni, da quella originaria di Maastricht del 1992 a quella di Lisbona del 2007, ha sempre previsto il limite del 3% del Pil entro il quale gli Stati possono legittimamente. La loro illegittimità o peggio inesistenza, sostiene Guarino, è dovuta a due vizi di forma: in primo luogo alla violazione della procedura di revisione del Trattato dell'Unione prevista dal suo articolo 48 comma 3˚, che richiede che le modifiche del Trattato siano ratificate da tutti gli Stati membri; in secondo luogo alla violazione dello stesso Fiscal Compact, che nel suo art.2 n.2 stabilisce che «il presente Trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l'Unione europea e con il diritto dell'Unione»: sicché non «si applica» nelle norme qui ricordate, chiaramente incompatibili con l'art.126 del Trattato di Lisbona sul limite del 3%, ovviamente tuttora in vigore. Insomma, conclude Guarino, tutta questa disciplina in materia di bilancio, oltre che insostenibile sul piano economico, è priva di basi giuridiche, essendo stata approvata nella disinvolta ignoranza e indifferenza per il Trattato costituzionale dell'Unione ed avallata dal silenzio sulla sua illegittimità nel dibattito pubblico. Ma la decostituzionalizzazione dell'Europa rispetto non solo alle costituzioni nazionali ma allo stesso Trattato costituzionale europeo e alla Carta dei diritti fondamentali in essa incorporata è avvenuta in maniera non meno clamorosa sul piano dei contenuti. Gli articoli 2 e 3 dei Trattati istitutivi dell'Unione e della Comunità Europea impongono una lunga serie di «obiettivi» edificanti: «Promuovere il progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione», pervenire a «uno sviluppo equilibrato e sostenibile», perseguire la «coesione economica e sociale», garantire «un elevato livello di protezione dell'ambiente... di occupazione e di protezione sociale», nonché «il miglioramento del tenore e della qualità della vita», la «protezione della salute», l'«eliminazione delle ineguaglianze» e la garanzia di tutti i diritti, inclusi quelli sociali e del lavoro. E invece l'unica norma comunitaria assunta come fondamentale e concretamente implementata è stata quella del libero mercato, vera grundnorm la cui rigidità si è sostituita alla rigidità di tutte le carte costituzionali, sia nazionali che europee. Insomma le politiche di rigore finora perseguite sono al tempo stesso anti-economiche, anti-sociali, antieuropee e anti-giuridiche. È questo amaro riconoscimento che dovrebbe guidare, nel prossimo Parlamento europeo, le forze politiche non diciamo democratiche o di sinistra, ma che semplicemente hanno a cuore il futuro dell'Europa e delle nostre stesse democrazie. L'inversione di rotta su tutti i piani della costruzione europea – economico, sociale, politico e istituzionale – è a questo punto tanto necessaria quanto radicale e urgente.
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