In Egitto per la prima volta i militari hanno conquistato il potere. La voce della sinistra risuona ancora con i suoi slogan di giustizia sociale e libertà. Ma il suo destino è soggetto all’unificazione delle sue forze e all’abbandono di puerili tendenze estreme
Abdel Fattah al-Sisi è stato eletto presidente, con il voto del 27 maggio 2014, boicottato dalla maggioranza degli egiziani. Per la prima volta, il più grande paese del Nord Africa è guidato da un uomo con le mani insanguinate. L’ex generale, esponente del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf), è responsabile dei test della verginità su diciassette donne che manifestavano in piazza Tahrir (2011), e corresponsabile delle morti di circa mille egiziani nei diciotto giorni di occupazione di piazza Tahrir (2011), delle violenze di Mohammed Mahmud e Maspiro (2011), ideatore del massacro di Rabaa al-Adaweya (2013) e coinvolto nelle morti dei mesi precedenti alle elezioni presidenziali del maggio 2014. Nonostante ciò, il colpo di Stato del 2013 che ha deposto l’ex presidente Mohammed Morsi lo ha incoronato come personaggio mediatico, diffondendo la mania per il ritorno della “stabilità” tra gli egiziani.
I militari in giacca e cravatta
«È l’ultima volta che mi vedrete con questa uniforme», ha detto Sisi dagli schermi della televisione pubblica all’annuncio della sua candidatura. Il passaggio dall’uniforme alla giacca e cravatta, come fu per Gamal Abdel Nasser, Anwar al-Sadat e Hosni Mubarak, si è così compiuto. Le dimissioni di Sisi da ministro della Difesa sono state poi essenziali per mantenere viva l’ambigua relazione tra élite militare e politica che domina l’Egitto dalla rivoluzione del 1952.
Sebbene il movimento sociale di piazza Tahrir del gennaio 2011 si sia trasformato immediatamente in un colpo di Stato militare, l’esercito ha agito con molta cautela per riprodurre il consueto rapporto tra élite politica e militare. Ha agito sul potenziale rivoluzionario dei movimenti di piazza. L’incontro in piazza Tahrir tra gli organizzatissimi Fratelli musulmani e i giovani rivoluzionari ha immediatamente disattivato il potenziale del movimento.
In un secondo momento, gli islamisti sono stati usati dall’élite militare per dimostrare al popolo egiziano che l’esercito, e solo l’esercito, è in grado, in altre parole ha il “potenziale rivoluzionario” per guidare il paese. E così le forze armate hanno di nuovo azzerato la distinzione tra politici e militari, intervenendo direttamente per annullare la rivoluzione del 25 gennaio 2011 con il colpo di Stato del 3 luglio 2013.
Da quel momento i militari hanno imposto la vendetta verso gli islamisti e un controllo scientifico sulla società egiziana: facendo ciò che la Fratellanza si era dimostrata incapace di fare (coprifuoco, controllo della polizia, leggi anti-proteste, leggi anti-terrorismo).
Non è un caso poi che il primo annuncio ufficiale della candidatura di Sisi sia arrivato dopo tre attentati e cinquanta vittime nel gennaio 2014. Riportando alla ribalta, per tipo di attacchi e luoghi dove sono avvenuti, le solite oscure connessioni tra Sicurezza di stato e islamismo radicale jihadista. Il sangue è servito ai militari per dimostrare ancora una volta che l’unica soluzione per gli egiziani è il ritorno del Faraone. E così, se il passaggio dall’élite politica a quella militare è stata impercettibile per gli egiziani nelle tre presidenze precedenti, tanto che pochi associano all’esercito Gamal Abdel Nasser, Anwar al-Sadat e Hosni Mubarak, questa volta il passaggio dall’uniforme agli abiti civili da presidente è avvenuto dopo un anno di governo islamista, che per i sostenitori dell’esercito verrà considerato come un “incubo scampato”, per arrivare a incoronare Sisi e la sua “lucida follia”. Dopo il 25 gennaio 2011, i militari hanno optato quindi prima per l’intervento diretto in politica dello Scaf e poi per un anno di farsa in cui hanno portato allo scoperto il lato oscuro dello Stato: la Fratellanza musulmana, con lo scopo di dimostrare a tutti che si tratta solo di “terroristi incompetenti”.
Il principale strumento di controllo di lungo termine, adoperato dallo Stato per disattivare le contestazioni, è stata la legge anti-proteste. Le principali ong indipendenti hanno condannato l’aumento senza precedenti del numero di persone sparite e torturate in carcere. Molti detenuti sono stati arrestati senza accusa e senza che venisse notificato ai familiari il luogo della detenzione per mesi.
Secondo il sito indipendente «Mada Masr», sono 41.000 le persone arrestate in Egitto dal giorno del colpo di Stato militare del 3 luglio 2013, tra cui 926 minori, 4768 studenti e 166 giornalisti. Anche le indagini sulle violenze di Rabaa al-Adaweya sono state costantemente inquinate. Secondo organizzazioni dei dir itti umani e ong indipendenti, sono oltre duemila le persone scomparse il 14 agosto 2013, tra i partecipanti ai sit-in al Cairo. Nonostante ciò, non sarò io a dire che la “rivoluzione” è finita con un colpo di Stato. Si registrano voci molteplici all’interno dell’esercito che vengono messe a tacere, non ultima la possibile candidatura alle presidenziali dell’ex capo dello Staff dell’esercito, Sami Annan, ritirata all’ultimo momento. Non solo, la scarsa affluenza al voto del Maggio 2013 dimostra una sempre più alta disaffezione degli egiziani ad aderire ai meccanismi di continua riproduzione del sistema autoritario e le autentiche aspirazioni democratiche del paese. Tuttavia, solo la contestazione del ruolo politico dell’esercito può riportare in vita le aspirazioni rivoluzionarie. Questo potrà avvenire forse con la trasformazione della Fratellanza da pilastro dello Stato a movimento rivoluzionario, sperando che nel frattempo gli egiziani non abbiano dimenticato che il presidente Sisi era un militare.
Parte da qui il racconto dell’Egitto dopo le rivolte del 2011. Questo libro è un reportage dalle principali città del paese realizzato tra il 2012 e il 2014. In queste pagine ripercorro a ritroso l’incoronazione dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi a presidente della Repubblica, il terribile massacro di Rabaa al-Adaweya e la contestata elezione dell’ex presidente islamista Mohammed Morsi.
Tra i sindacalisti di Suez e gli operai di Mahallah al-Kubra, i contestatori di Alessandria d’Egitto e i salafiti di Sallum, i raccoglitori di Zebelin e le vie di Darb al Ahmar, il racconto giornalistico – che nasce dal basso, dalle strade delle periferie – si intreccia con la cronaca e la descrizione di un paese molto frequentato ma poco conosciuto, soprattutto nei meccanismi di gestione del potere e nella vita quotidiana.
Giuseppe Acconcia, Egitto. Democrazia militare, exnorma, 2014
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