Vicolo cieco a Bruxelles/3. Una scelta coraggiosa e importante quella di Stefano Fassina quando si è dimesso dal governo italiano dove svolgeva il compito di viceministro dell'economia. È illogico ritenere che sia uscito dal governo in quanto offeso per lo sgarbato «Fassina chi?» pronunciato dal neosegretario del suo partito. È invece probabile che si sia accorto di avere di fronte tutte porte chiuse al ministero, al governo, al partito e abbia chiuso con l'esecutivo per avvertire, in modo allarmato, la sua parte politica che ormai non c'era più niente da fare.
La battaglia europeista di rilancio e di difesa dell'occupazione o meglio delle prospettive del ceto medio italiano non aveva prospettive favorevoli. Nel dibattito di cui pubblichiamo un resoconto nelle pagine II e III dell'inserto si toccano anche punti in cui dissentiamo da Fassina. La "nostra" Europa, si rispecchia meglio in quella di Syriza, che si batte per l'eguaglianza di tutte le persone; la "nostra" Europa è piuttosto quella dei beni comuni, dell'accoglienza aperta agli uomini e alle donne provenienti dal resto del mondo. In questo quadro una "lista Tsipras" anche in Italia per le elezioni di maggio sembra rispondere meglio a un'Europa che voglia uscire dal vicolo cieco.
Non sono questi i temi principali di Fassina, costretto a fare il possibile con mezzi limitati e una feroce avversione dei poteri e delle alte burocrazie. Egli esprime la sua forte preoccupazione per ogni populismo e il suo fermo rifiuto per il pensiero unico liberista, senza mai arretrare. È precisa la sua critica per i condizionamenti di «Bruxelles» che sono in sintonia con la grande finanza e le banche d'affari. Non lo convincono i ripetuti divieti a «quegli spreconi dei Piigs» e non è in condizione di reagire contro i verboten dei ministri di Angela Merkel e degli altri governanti "nordici" per bene di fronte a ogni tentativo di politica espansiva o anche soltanto keynesiana. Quando tale politica di alternativa è risultata impraticabile ed è prevalsa la linea del rigore a tutti i costi contro il debito, Fassina ha preferito togliere il disturbo.
In un articolo appena uscito su Italiani Europei - la rivista di D'Alema e Amato Fassina, ancora viceministro ma pieno di dubbi, avverte che il ceto medio è ostile a intrecci con l'alta finanza e ai vincoli assoluti di spesa. Il partito, se vuole salvarsi, evitando di perdere il consenso della sua "maggioranza" deve cambiare politica, deve ritrarsi dal baratro ormai vicino. Il baratro c'è senz'altro, ma è questa la sinistra? I nostri concittadini più giovani non sanno niente di ceto medio. Sanno che ci sono persone o famiglie che sono in grado di scegliere, di crescere, di spendere, di affrontare i casi inattesi della vita, e che ci sono altre famiglie, almeno altrettanto numerose, o individui, che mancano di tutto questo e devono arrangiarsi. Poi ci sono i super-ricchi e i senza niente; ma i primi sono pochi e nascosti e i secondi non votano.
Per farsene un'idea, i nostri concittadini più giovani dovrebbero sapere che un tempo, verso la metà del secolo scorso, i treni italiani avevano prima, seconda e terza classe. La seconda, dotata di gran lunga di più vagoni, era dedicata al ceto medio. La prima, costituita da veri salotti con poltrone di velluto, costava circa il doppio della seconda, sicché viaggiare in una prima declassata - velluto un po' impolverato era la massima aspirazione del ceto medio. In terza viaggiavano i poveri, se proprio dovevano, ma non viaggiavano quasi mai; o almeno così credevano alle Ferrovie dello Stato. Poi venne il miracolo economico, la terza classe venne abolita, i poveri andavano avanti e indietro, dal lavoro alla famiglia, dall'università fino a casa, arrampicandosi sui vagoni di seconda divenuti scarsi. Erano operai della Fiat, disoccupati in cerca di un posto, studenti universitari pieni di sonno, stranieri di ogni origine e attività. Il ceto medio non c'era più. Poi il tempo è cambiato: la prima classe si chiama Tav; la terza è strapiena di pendolari; il ceto medio non è tornato.
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