La Cina è il primo investitore al mondo nel settore delle energie rinnovabili. È anche il paese che presenta la più importante capacità installata di impianti eolici e solari
Già verso la fine degli anni settanta il Giappone, allora in forte crescita industriale, cominciò ad interrogarsi sui forti danni che tale sviluppo provocava all’ambiente circostante e agli esseri umani. Fu elaborata, per risolvere il problema, una strategia di grandi proporzioni, peraltro molto discutibile. Tale disegno era sostanzialmente volto a riallocare le produzioni più inquinanti nei vicini paesi asiatici, meno sviluppati; evidentemente, almeno allora, questi ultimi erano meno sensibili del Giappone ai problemi ambientali e più attenti invece ai vantaggi della delocalizzazione produttiva in termini di sviluppo economico potenziale. Va comunque ricordato che le strategie di delocalizzazione prendevano anche in conto il minore costo del lavoro presente in altri paesi.
Qualcosa per certi versi di analogo, ma per altri con alcune rilevanti differenze, si sta ora apparentemente cercando di mettere in opera da parte dei governanti cinesi.
In questo caso, rispetto al Giappone, siamo comunque di fronte ad un problema ambientale di più grandi proporzioni, sia per le molto maggiori dimensioni dell’economia cinese attuale rispetto a quella del paese del sol levante diversi decenni fa, sia per i più alti livelli di inquinamento registrabili oggi nel paese rispetto al Giappone degli anni settanta ed ottanta, sia infine per l’esistenza di altre specificità, a qualcuna delle quali faremo cenno più avanti.
La situazione attuale
Intanto, certamente, l’immagine che si ha oggi della Cina è quella di un paese molto colpito dall’inquinamento, forse quello più colpito al mondo, almeno tra i grandi complessi statali. Naturalmente, per altro verso, i media occidentali non tralasciano occasione per sottolineare la gravità del problema.
Comunque, indubbiamente, il livello di degrado ambientale, in particolare in molte delle grandi città del paese, appare oggi certamente grave. Ma nello stesso tempo la Cina sta da qualche tempo facendo grandi sforzi per migliorare la situazione.
Va preliminarmente sottolineato come una specificità del caso cinese sia rappresentata dal fatto che, sotto l’impulso, a suo tempo, di una crescita annuale a due cifre del pil, che sembrava non dovesse aver fine, sono stati costruiti nel paese impianti industriali, specialmente in alcuni settori ed in alcune aree geografiche, che complessivamente comportavano una capacità produttiva molto al di sopra delle necessità. Si tratta di comparti, quali l’acciaio,il cemento, il vetro, considerati contemporaneamente tra i più inquinanti.
Le strategie cinesi
Accanto a tali problemi, bisogna considerare che la Cina è risultata già nel 2013 il primo investitore al mondo nel settore delle energie rinnovabili (Li Hejun, 2014) e tale primato si è ripetuto nel 2014. I dati di Boomberg New Energy Finance mostrano che in quest’ultimo anno la Cina ha investito nel settore 90 miliardi di dollari, su di un totale mondiale di 301 miliardi (circa il 30% del totale) , con un incremento rispetto all’anno precedente del 32%. Al secondo posto vengono, molto distanti, gli Stati Uniti, con circa 52 miliardi.
Il paese asiatico è oggi anche quello che presenta la più importante capacità installata nel settore dell’energia idroelettrica, degli impianti eolici, di quelli solari.
Gli accordi presi di recente tra Cina e Stati Uniti in tema ambientale comporteranno, tra l’altro, nel paese il passaggio dell’incidenza delle energie rinnovabili dell’attuale 8% del totale delle fonti generate al 20% nel 2030, ciò che porterà ad un investimento annuale di 145 miliardi di dollari ogni anno sino al 2030 nel campo dell’ energia a zero emissioni (Li Hejun, 2014).
Le strategie messe in campo dal paese per ridurre i livelli di inquinamento sono molto varie ed affrontano il problema da diversi angoli di vista. Esse riguardano, tra l’altro, la chiusura, la ristrutturazione, il trasferimento degli impianti più inquinanti, il risparmio energetico, un forte impulso alle energie rinnovabili, comunque un mutamento nel mix delle fonti utilizzate, infine un nuovo sistema legislativo di lotta all’inquinamento severo in misura crescente.
Una delle azioni più spettacolari, anche se di impatto relativamente modesto, ma nello stesso tempo di importante rilievo simbolico, riguarda la proibizione all’acquisto di vetture nuove in alcune grandi città: dopo Pechino, dove il divieto è in atto da qualche tempo, ora è la volta di Shenzhen di varare normative in proposito.
Il primo gennaio 2015 è entrata in vigore una nuova legge che rinforza le sanzioni contro le imprese e le persone che commettono reati ambientali, fornisce nuovi poteri agli ispettori incaricati del rispetto delle disposizioni e fissa la protezione dell’ambiente al livello di priorità nazionale. Intanto i tribunali sembrano comunque aumentare la severità delle pene per i reati relativi.
La politica di delocalizzazione:il caso dello Hebei
Uno degli aspetti più rilevanti della strategia antinquinamento, in prospettiva, riguarda l’esempio che sta portando avanti in questi mesi la provincia dello Hebei, nella quale si trovano alcune delle città più inquinate del paese. La provincia si trova inoltre a possedere, certamente non per coincidenza, molti dei maggiori impianti produttivi nei settori dell’acciaio, del cemento e del vetro.
Il governo centrale ha imposto alla provincia di tagliare di un terzo la sua produzione di acciaio, di 60 milioni di tonnellate quella di cemento e misure molto drastiche anche per l’estrazione del carbone.
La strategia messa allora a punto da parte delle autorità locali è quella di riallocare una parte delle produzioni verso le campagne, ma soprattutto di spostare tali impianti in Africa, America del Sud, Europa dell’Est e nei restanti paesi asiatici (Zhang You, 2014).
Il progetto appare comunque in linea con la forte spinta all’aumento degli investimenti all’estero del paese; tra l’altro vengono spostate all’estero da qualche tempo anche molte delle produzioni che comportano un alto costo del lavoro, a cominciare del tessile di bassa gamma. Peraltro, quello dello Hebei, sembra costituire un esperimento che, se adeguato alle aspettative, nonché con le eventuali adeguate correzioni imposte dall’esperienza, potrebbe poi essere esteso a livello nazionale.
Così nel settembre del 2014 il più grande produttore di acciaio cinese, Hebei Iron & Steel Group, ha siglato un accordo con l’Industrial Development Corporation del Sud Africa per la costruzione di un complesso siderurgico che produrrà 3 milioni di tonnellate di acciaio nel paese africano a partire dal 2017 e 5 milioni a partire dal 2019. Oltre al Sud Africa i progetti già in qualche modo avviati riguardano insediamenti in Cile, Tailandia, Indonesia, Myanmar (Zang Hu, 2014).
Si prevede così in totale, entro il 2023, la delocalizzazione di impianti tra l’altro per 20 milioni di tonnellate di acciaio, 30 milioni di cemento e per volumi molto rilevanti anche per il vetro.
I responsabili cinesi sottolineano peraltro con forza che essi non vogliono esportare l’inquinamento negli altri paesi. Essi promettono di rispettare le regole ambientali locali e di impiegare le migliori tecnologie disponibili in proposito.
Anche se tali dichiarazioni sembrano delineare sulla carta un rilevante passo in avanti rispetto alle precedenti strategie giapponesi, esse appaiono peraltro del tutto generiche e convenzionali. Vedremo cosa succederà in concreto nei prossimi anni.
Testi citati nell’articolo
-Li Hejun, China as a model renewable energy economy, www.ft.com, 31 dicembre 2014
-Zang Yu, Hebei looks to relocate its largest and most polluting industries abroad, www.globaltimes.com, 22 dicembre 2014
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