Bassa crescita e produttività, invecchiamento, deficit. Crescono i moniti a "non comportarsi come il Giappone". Un malato cronico senza cure finora efficaci
Un fantasma si aggira per le economie dei paesi sviluppati, ma anche di qualche paese emergente, quello del Giappone. E’ noto come il Pil del paese asiatico cresca molto poco da circa 20 anni, mentre nessuna medicina tra quelle sinora provate sembra essere adatta a guarire il malato. Negli ultimi tempi si moltiplicano da tutte le parti i timori che le proprie economie possano tendere a comportarsi come quella giapponese. Si analizzano con attenzione i dati, si confrontano i vari indici disponibili, si cercano ansiosamente le possibili differenze, si lanciano moniti a non comportarsi come il Giappone su certi fronti.
Lo stesso scrivente, in un articolo comparso in tempi relativamente recenti su questo stesso sito, avanzava l’ipotesi che l’Italia fosse destinata ad un destino simile a quello del paese asiatico. Gli indizi, anche gravi, non mancano: intanto, grosso modo negli ultimi dieci anni e più, il nostro paese ha già mostrato tassi di crescita dell’economia più o meno dello stesso tenore; le analogie ulteriori tra la nostra situazione e quella del Giappone sono molto numerose e vanno dall’invecchiamento della popolazione e dalla sua riduzione tendenziale in valori assoluti - fenomeno che potrebbe essere aggravato dalle politiche razziste del nostro governo, che trovano peraltro anch’esse delle strane analogie con quanto succede in Giappone da molto tempo - , al grande deficit dei conti pubblici, alla scarsa efficienza del settore dei servizi, alla bassissima crescita della produttività, alla rilevante dipendenza dell’economia dal settore delle esportazioni.
Va a questo punto ricordato tra l’altro che, come faceva notare di recente Krugman in un breve articolo sulla comparazione dei tassi di crescita degli Stati Uniti e dell’Europa Occidentale (Krugman, 2010), la differenza positiva a favore del primo paese è attribuibile quasi interamente proprio alla maggiore crescita della sua popolazione.
Una ultima similitudine tra il Giappone e l’Italia riguarda l’atteggiamento dei due governi verso il mondo del lavoro: l’avvento di Koizumi al potere nel 2003 ha significato un forte attacco ai livelli dei salari e una forte spinta alla precarizzazione del lavoro, contro tutta la tradizione precedente del paese. I risultati sono stati apparentemente disastrosi; tale comportamento, tra l’altro, ha contribuito fortemente a deprimere la domanda interna e a demotivare una forza lavoro precedentemente molto coinvolta nei destini aziendali.
Ora, con il governo Berlusconi e i suoi funzionari siamo assistendo nel nostro paese alla ripetizione di uno scenario analogo, i risultati finali saranno presumibilmente simili. I timori per l’Italia, come per il Giappone, possono essere alimentati ancora di più da un libro apparso di recente negli Stati Uniti (Reinhart, Rogoff, 2009). In tale volume si afferma che in generale, quando il livello del debito pubblico sul Pil raggiunge e supera in un certo paese il 90%, quell’economia trova molte difficoltà a crescere. Naturalmente tale indicatore va preso con un po’ di cautela: le cose possono essere diverse da situazione a situazione, altre variabili - dal livello del costo del denaro al modo concreto in cui i soldi presi a prestito vengono impiegati - possono avere un’influenza significativa, ma, in linea di massima, i fatti mostrano che tale piccola regola tende a reggere abbastanza bene a molte prove.
Per altro verso, va ricordato che fare la fine del Giappone non apparirebbe poi una sorte troppo maligna, considerato l’elevato tenore di vita del paese, i, seppur in crescita, ridotti livelli di diseguaglianza, l’esistenza di un sistema industriale di elevata sofisticazione - scalfita ora peraltro dalla crisi e dalle difficoltà della Toyota - e così via. Sono elementi, questi, rispetto alle quali noi siamo messi sicuramente peggio.
Ma a leggere la stampa internazionale, il timore di imitare il Giappone sta crescendo quasi ovunque, forse anche perché il livello del debito pubblico giapponese ed italiano hanno fatto scuola e la maggior parte dei paesi occidentali stanno registrando, con la crisi, una forte crescita dello stesso fenomeno. Così, negli ultimi mesi si registra sulla stampa britannica un duplice timore. Quello di incappare nella sorte del Giappone e quello di dover ricorrere all’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, come è accaduto diverse decine di anni fa. Una cosa sembra quasi certa: se i conservatori vinceranno, come sembra, le prossime elezioni e manterranno poi le promesse della vigilia - tra le quali quella di tagliare drasticamente, anche se gradualmente, la spesa pubblica, quella di ridurre i poteri degli organi di controllo sui mercati finanziari e, va da sé, quella di portare un rinnovato attacco al mondo del lavoro - , la prospettiva giapponese non dovrebbe tardare a materializzarsi in maniera decisa.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, intanto, gli sforzi di molti commentatori sono concentrati invece nel cercare di mostrare come il paese abbia appreso le lezioni del caso e che quindi i rischi di una stagnazione dell’economia nei prossimi anni non dovrebbero sussistere o comunque, semmai si materializzassero, essi dovrebbero arrivare da qualche altra direzione. Ci sono buone probabilità che presto sarà il Senato - apparentemente uno dei peggiori della storia americana - a pensarci e almeno certi membri del governo in carica.
Ma c’è un altro paese verso cui sono puntati gli sguardi di molti per un possibile confronto con il Giappone, la Cina. A tal proposito, bisogna preliminarmente ricordare che, dopo la seconda guerra mondiale e un primo assestamento prebellico, la crescita dell’economia del paese del sol levante si può suddividere in tre fasi: tra il 1950 e il 1973 il tasso di sviluppo medio dell’economia è stato del 9,6% annuo - per coincidenza quello cinese dal 1979 sino al 2009 si aggira più o meno sullo stesso livello; poi, tra il 1974 e il 1989, esso si è ridotto al 3,8% all’anno, mentre dal 1990 al 1997 lo stesso è apparso aggirarsi intorno all’1,7%, per poi ridimensionarsi ancora negli anni successivi (Comito, 2002). Così, il Pil per abitante è salito in Giappone da un livello del 20% rispetto a quello statunitense nel 1950 sino ad una punta dell’85% nel 1991, per poi scendere sino al 72% nel 2006 (Maddison, 2007). A questo punto, i dubbi sulla sorte futura della Cina sono di due tipi: da una parte, si può pensare che, esaurita una prima fase di rattrapage rispetto ai paesi sviluppati, anche il suo tasso di crescita, come già quello giapponese, prima si possa ridurre fortemente e successivamente arrestarsi o quasi; dall’altra, militerebbero a favore di questo possibile andamento anche alcune caratteristiche apparentemente comuni tra la Cina di oggi e il Giappone degli anni ottanta, prima dello scoppio della bolla.
Le similitudini sembrerebbero molto rilevanti: in ambedue i casi un altissimo livello di risparmio e un rapporto di cambio sottovalutato hanno alimentato una rapida crescita dell’economia centrata sulle esportazioni ed hanno avuto come risultato un elevato surplus della bilancia delle partite correnti. Inoltre, un livello molto alto di investimenti ha generato una rilevante sovracapacità produttiva e dei ritorni sul capitale in caduta. Infine, in Cina un alto livello di prestiti bancari potrebbe dare origine ad un forte aumento dei prestiti inesigibili - come a suo tempo nell’altro paese - mentre i mercati delle azioni e quello immobiliare potrebbero entrare in una bolla, di nuovo seguendo quanto è già accaduto nel paese vicino (The Economist, 2010).
Ma le somiglianze appaiono soltanto superficiali. Facendo riferimento al già citato testo dell’Economist, possiamo ridimensionare i timori sopra ricordati. In realtà, nel 1989, prima del crollo, il rapporto prezzo/utili dei titoli azionari era pari in Giappone a circa 70 volte, mentre oggi per la borsa di Shangai esso è uguale a 28 volte, anche al disotto della sua media di lungo termine che è pari a 37. Il mercato immobiliare cinese è certamente in una fase di surriscaldamento, ma, a parte i casi di Pechino e di Shangai, i prezzi medi delle abitazioni nelle 70 città principali del paese sono aumentati dell’8% nel 2009, dopo una caduta nel 2008. Inoltre, gli acquirenti cinesi pagano l’acquisto di una abitazione in media con una percentuale di capitali propri che è molto più elevata che nel caso del Giappone di venti anni fa. Così, tale acquisto è finanziato principalmente dai risparmi, non dai prestiti bancari. Il livello degli investimenti, poi, è certamente elevato, più elevato che nel Giappone degli anni ottanta, ma bisogna considerare che lo stock complessivo degli stessi per abitante è pari oggi in Cina soltanto a circa il 5% di quello corrispondente del Giappone e degli Stati Uniti. In realtà, negli ultimi anni il tasso annuo di incremento del livello degli investimenti delle imprese sta riducendosi in misura rilevante, mentre aumenta soprattutto quello nel settore delle infrastrutture pubbliche.Per quanto riguarda i prestiti delle banche al sistema economico, si può nutrire qualche preoccupazione in più, ma va considerato che la forte crescita nei livelli dei prestiti del 2009 segue a un periodo di diversi anni nei quali essi sono aumentati ad un ritmo inferiore a quello dell’aumento del Pil. In ogni caso, si deve dare per scontato un incremento percentuale dei prestiti inesigibili, ma complessivamente esso non dovrebbe essere veramente preoccupante.
Almeno stando alle informazioni disponibili, sembra si possa concludere che la Cina, al contrario forse di almeno alcuni paesi occidentali, non dovrebbe verosimilmente fare la fine del Giappone. Forse dovremmo preoccuparci prima di tutto del nostro caso.
Testi citati nell’articolo
- Comito V., Storia della finanza d’impresa, 2° volume, Utet Libreria, Torino, 2002
- Krugman P., Learning from Europe, www.nyt.com, 11 gennaio 2010
- Maddison A., Contours of the world economy, 1-2030 AD, Oxford University Press, Oxford, 2007
- Reinhart C. M., Rogoff K. S., This time is different. Eight centuries of financial folly, Princeton University Press, Princeton, 2009
- The Economist, Not just another fake, 14 gennaio 2010
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