Studi e interpretazioni sugli effetti della crisi economica (anche detti “ricette”) si stanno moltiplicando. Ovviamente, al centro dell’attenzione sono i discorsi - soprattutto "autorevoli" - degli economisti. Ma succede anche ad alcuni di loro di incrociare dati e riflessioni con i problemi del sociale e del vivere quotidiano della gente. In questa prospettiva, riprendo alcuni spunti da diverse voci che fanno il punto sulla situazione negli Stati Uniti.
Ho trovato l’espressione Generation Depression (1): ci si chiede, cioè, se stia crescendo una generazione di giovani i cui comportamenti saranno segnati, per tutta la loro vita, dalle esperienze attuali. Naturalmente si sottolinea il salto relativo alle generazioni precedenti (gli esempi si riferiscono sia agli anziani che, giovani durante la “grande depressione”, hanno poi avuto negli anni successivi una vita sempre più positiva, sia ai baby boomers vissuti, appunto nella giovinezza, in una prospettiva sociale di forte mobilità e di crescenti opportunità). Quanto all’attuale generazione di adulti, si argomenta - tenendo sullo sfondo il fatto che gli Stati Uniti e molta parte del mondo occidentale sono tecnicamente usciti dalla crisi - che, come ci si sta avviando verso cambiamenti radicali nel funzionamento del sistema complessivo, lo stesso varrà anche per i comportamenti individuali.
A tal proposito, interessa uno studio del National Bureau of Economic Research (pubblicato nel settembre scorso con dati relativi al periodo dal 1972 al 2006) in cui si dice che anche soltanto un anno di particolare difficoltà vissuto nell’adolescenza o nei primi anni adulti può incidere pesantemente sulla formazione di una persona e sui suoi comportamenti e vicende degli anni successivi. Si segnala la possibilità, con riferimento alla sfera pubblica e alla politica, di una crescente disaffezione e perdita di fiducia. Lo studio presenta analisi e dati relativi a fasi del passato segnate - per le generazioni dei giovani adulti che hanno vissuto questo passato - non soltanto da difficoltà nella sfera economica e lavorativa, ma anche psicologiche e nei rapporti sociali.Ancora, guardando ai prossimi anni, non si considerano solo gli effetti delle trasformazioni e difficoltà che l’economia degli Stati Uniti sta attraversando. Si tiene anche conto del nuovo panorama globale in cui l’America va collocata ed è sempre più chiaro che, in tutto l’arco di tempo dalla fine della seconda guerra mondiale al presente, non si erano avuti cambiamenti di questa portata non solo nel funzionamento del sistema economico, ma nel sistema nel suo complesso.
Ecco allora che si paventa l’ipotesi di modi di vivere e, più ampiamente, di una “cultura” che saranno l’opposto di quelli della fase appena conclusa, dominata dal mercato e dai valori del capitalismo rampante. Ci sono modi nuovi di descrivere il sistema, così come i suoi soggetti: i “nuovi normali”. E’ così che vengono definite le generazioni giovani, le persone le cui vite sono più direttamente coinvolte o, comunque, segnate dai processi in atto. Robert Reich, noto studioso dell’Università della California, ha sviluppato queste considerazioni in un libro uscito nel 2007, Supercapitalism. Attualmente, lo stesso autore, ne sta portando a termine un altro dal titolo After-shock.
Un dato su cui scelgo di soffermarmi - che riguarda anche l’Europa e quindi ovviamente l’Italia - attiene al futuro della categoria dei “nuovi normali”. Quelli che propongo, sono spunti potenzialmente molto utili, ancorché provvisori, parziali e tratti da riflessioni di esperti, a loro volta, più problematici e perplessi che nel passato. Partendo dai dati sulla disoccupazione negli Stati Uniti, per i giovani tra i 20 e i 24 anni, il tasso è valutato al 15% , nettamente più pesante rispetto alla media che, a livello nazionale, si aggira intorno al 10%. Sono, poi, particolarmente negativi i dati relativi a coloro che hanno portato a termine studi di livello superiore. Emergono, inoltre, considerazioni sulla sempre più competitiva presenza di “cervelli” di altri paesi e in particolare delle persone con livelli eccellenti di formazione provenienti da Paesi come Cina, India e non solo. Il contesto è ormai divenuto il mondo globale e si deve dunque tenere conto della mobilità transnazionale. Per il futuro - richiamando gli studi prima citati secondo i quali i figli di questi attuali giovani risentiranno del senso di inadeguatezza e dell’insoddisfazione dei loro genitori - lo scenario prevede una crescente sfiducia nelle istituzioni e nel sistema nel suo complesso, persone meno disposte a collaborare e a stabilire rapporti con gli altri, e sempre più ostili ai “diversi”. A questa possibile chiave di lettura, se ne affianca però un’altra che suggerisce qualche elemento positivo: gli adulti avranno più tempo da dedicare alla famiglia, saranno consumatori più attenti e più consapevoli dei problemi ambientali. Dunque, persone che imparano a cavarsela con strategie di vita adeguate ai tempi nuovi. Una lettura in qualche misura positiva della “generazione della crisi”. Per fortuna - provo a dirlo così - che ci saranno i “nuovi normali”.
(1) Si veda "The New Normal", Newsweek, 18 gennaio 2010
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