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Svariate sono le modalità che possono consentire tale forma di partecipazione, che in generale possono far leva tanto su titoli finanziari, quanto su strumenti di contrattazione salariale. Svariate sono anche le finalità che con tali strumenti possono essere perseguite, così come i soggetti coinvolti, ognuno dei quali investito da costi e benefici peculiari.

Esperienze importanti con riguardo alla partecipazione dei dipendenti al capitale delle imprese sono state realizzate negli Stati Uniti, in Francia e in Svezia, mentre in Germania è stata realizzata una forma di partecipazione dei dipendenti al controllo delle imprese svincolata dal possesso di azioni.
Di tali esperienze, le più significative rispetto al quadro delle compatibilità economiche e delle potenzialità come strumento di promozione della produttività appaiono quella americana e quella francese.
Le esperienze tedesca e svedese si sono, infatti, realizzate all’interno di un paradigma teorico-ideologico che postulava la necessità di influenzare dall’esterno la dialettica all’interno della vita societaria (caso tedesco) o quella del mercato dell’allocazione del capitale (caso svedese) creando rispettivamente una nuova tipologia di soci senza capitale e con un diritto garantito di rappresentanza (caso tedesco) o una nuovo circuito di investimento dei capitali dei dipendenti mediante fondi collettivi a livello nazionale o settoriale (caso svedese).
In entrambi i casi risulta alterato, con condizionamenti di natura normativa, il funzionamento fisiologico dell’economia di mercato, in un caso riducendo i poteri degli azionisti delle società, nell’altro introducendo nel mercato dei capitali dei soggetti, i “fondi”, che dovrebbero operare secondo criteri almeno in parte diversi da quelli propri di tale mercato.
Viceversa, le esperienze americana e francese si realizzano all’interno di un sostanziale rispetto per il funzionamento della vita societaria e del mercato dei capitali, puntando a valorizzare su un piano propriamente microeconomico le potenzialità offerte da un coinvolgimento dei dipendenti nel capitale dell’impresa. Significativo è che in entrambi i casi, pur come si è detto al di fuori di qualunque connotazione ideologica anticapitalista, è previsto che l’azionariato dei dipendenti si realizzi in forma collettiva.

L’ordinamento giuridico italiano non prevede attualmente alcuna disposizione specifica in merito alla possibilità di “aggregare” la partecipazione dei dipendenti azionisti. Anche il dibattito politico e dottrinario che si è sviluppato, con alterni livelli di intensità, a partire dal dopoguerra ha tendenzialmente trascurato quest’aspetto, apparentemente di natura meramente “tecnica”.
In realtà, il problema di identificare sotto il profilo giuridico le forme di realizzazione della dimensione collettiva dell’azionariato dei dipendenti trascende la tecnicalità giuridica, in quanto la sua soluzione costituisce un elemento determinante per qualificare il ruolo economico dell’azionariato dei dipendenti.
Dalle principali esperienze estere emerge la necessità di trovare soluzioni specifiche e innovatrici che consentano di garantire che le potenzialità dell’azionariato collettivo dei dipendenti non siano compromesse dall’inadeguatezza delle modalità di realizzazione. Sia gli Esop americani che i fonds communs d’entreprise francesi costituiscono degli strumenti giuridici creati ad hoc per il fenomeno dell’azionariato collettivo dei dipendenti, sulla base di strumenti giuridici già presenti nell’ordinamento (i trust negli Usa e i fondi comuni in Francia).
Tale possibilità sembra per il momento preclusa nell’ordinamento italiano o perlomeno estremamente difficoltosa. Gli strumenti offerti dal diritto societario italiano appaiono fortemente sub-ottimali, in quanto con l’eccezione della costituzione di una società di capitali, lasciano irrisolti i principali problemi connessi all’intestazione individuale delle azioni.

Una via italiana per l’azionariato dei dipendenti?

Condizioni economiche e regolazioni giuridiche hanno sostenuto l’avvio di sperimentazioni significative nel campo dell’azionariato dei dipendenti in diversi paesi, nel corso di un ciclo industriale dominato da “aspettative crescenti”, sul piano della crescita economica e dello sviluppo.
Le esperienze sono maturate nell’ambito di un capitalismo a vocazione prevalentemente industriale in cui la finanza era soprattutto orientata all’investimento produttivo ed al coinvolgimento produttivistico dei lavoratori.
L’Italia per alcune caratteristiche strutturali della sua economia (imprese familiari) e per il perdurare di rigidità ideologiche anticapitalistiche è stata al margine di tale prospettiva e non si è dotata di una strumentazione di sostegno.
L’azione delle parti sociali, per quanto riguarda la dimensione microeconomica, si è concentrata, con effetti non certo insignificanti, sulla contrattazione collettiva quale forma di controllo della discrezionalità manageriale in tema di rapporti di lavoro, senza lambire l’area della finanza per prevenire ogni forma di coinvolgimento del dipendente nel rischio di impresa.
Sono note le trasformazioni intervenute con l’avvento dell’economia post-industriale. Si è entrati in un ciclo di aspettative sociali decrescenti o deboli, alimentate da un rallentamento dei tassi di sviluppo e da un trasferimento di priorità dai profitti alle rendite.
In tale quadro, a fronte della constatazione che l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia genera instabilità dei mercati e disuguaglianze crescenti, riprende consistenza la prospettiva che l’azione sindacale per recuperare efficacia superi, anche in Italia, i suoi tradizioni confini, sperimentando nuove forme di coinvolgimento dei lavoratori nel controllo e nella proprietà delle imprese. Si tratta di una linea strategica coerente con la diffusa tensione a favore di un capitalismo più responsabile, destinato a rendere più trasparenti i rapporti tra imprese e mercati finanziari e tra imprese e lavoratori.
Che il tema sia ormai maturo è provato da ben 7 proposte di legge (da parte del centro-destra e del centro-sinistra). Sulla stessa linea, il recente riassetto contrattuale (purtroppo non firmato dalla Cgil) che nella misura in cui dilata il ruolo della contrattazione decentrata, crea le condizioni per ridiscutere il ruolo del dipendente nella gestione delle imprese.

Il problema è di mettere ordine nel definire una strategia partecipativa che non trova in Italia né un terreno precedentemente coltivato né una condivisione da parte di tutte le Organizzazioni sindacali.
Il rapporto tra il ruolo della legge e quello della contrattazione collettiva in materia rimane un nodo irrisolto. Una legge “leggera” può creare alcune condizioni di sostegno soprattutto in materia di partecipazione finanziaria, ma non può certo condizionare la libera iniziativa contrattuale che deve adattarsi alle singole storie aziendali.
Un ruolo invasivo della legga solleverebbe, poi, problemi di non facile soluzione in materia di una individuazione dei soggetti preposti al controllo degli adempimenti di legge e dei beneficiatari delle agevolazioni previste.
Sul modello delle esperienze straniere la legge può prevedere nuovi strumenti legali (quali specifiche forme di trust o di fondi comuni) per favorire la partecipazione collettiva dei lavoratori azionisti e per incentivarne l’adesione, ma rimane aperto il problema della intensità degli stimoli fiscali e dei rischi connessi ad un eccesso di coinvolgimento dei lavoratori nei rischi di impresa.
In conclusione, se la crisi in atto originata dagli squilibri finanziari propone una rinnovata concentrazione sull’economia reale e sugli investimenti produttivi, il problema di un riequilibrio dei rapporti tra lavoro e capitale non può non entrare nella stessa agenda.
La prospettiva storica della democrazia economica, a sostegno della democrazia politica è così destinata a rivitalizzarsi.
Non sono però utili approcci troppo sbrigativi. Il tema deve essere ancora approfondito nelle sue molteplici implicazioni e modalità applicative e soprattutto deve essere consapevolmente fatto proprio dalle parti sociali che svolgono in tale campo un ruolo decisivo, non delegabile al sistema politico, che può svolgere un ruolo di supporto e incentivazione ma non di “motore” della partecipazione.

Le parti sociali hanno finora manifestato una riluttanza ad impegnarsi nella “sperimentazione” di forme significative di partecipazione finanziaria, in un contesto normativo forse non particolarmente favorevole ma senz’altro non proibitivo. L’attesa di un intervento legislativo, soprattutto se sovraccaricato di aspettative, rischia di fornire ulteriori alibi per ritardare la maturazione di una politica delle relazioni industriali che assuma il tema della partecipazione non come obiettivo astratto e fattore di identità ideologica ma come pratica effettive di esperienze di contrattazione. Solo un deciso passaggio dalla teoria alla prassi consentirà infatti di mettere alla prova la praticabilità di forme di partecipazione che, soprattutto quando assumono la forma di partecipazione azionaria, offrono da un lato inediti spazi di coinvolgimenti nella governance delle imprese, ma dall’altro comportano complesse combinazioni, e in alcuni veri e propri conflitti, di interessi per i lavoratori coinvolti e per le stesse organizzazione sindacali che ne sono promotrici.

Tratto da www.nelmerito.com
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