Anche nel caso dell’affaire Pomigliano, FIAT è destinata a far riflettere su come ammodernare il sistema produttivo del paese.
In un mercato che mostra un eccesso di capacità produttiva e che con ogni probabilità conoscerà a breve una riorganizzazione, con una riduzione dei grandi players a livello mondiale, FIAT ha giocato la carta dell’aumento della capacità produttiva con l’ambizione di divenire uno dei grandi produttori del mercato dell’auto del futuro. E’ un piano industriale ambizioso, che prevede un aumento significativo della capacità produttiva in Italia, fondato su uno ‘‘scambio’’ tra aumento della produttività e maggiori investimenti cui dovrebbero seguire aumenti salariali. Gli investimenti verrebbero effettuati una volta ottenuta la garanzia che si potranno realizzare aumenti di produttività agendo, sostanzialmente, su una più efficace organizzazione dei luoghi di lavoro. In questo scambio, la produttività passa dunque per un aumento della flessibilità all’interno all’azienda capace di rispondere alla concorrenza che viene da altri siti produttivi.
Il disegno è ambizioso e chiama in campo un binomio che www.nelmerito.com ha portato avanti in più di un’occasione: la bassa crescita della produttività, da un lato, e la necessità di agire sul mondo delle relazioni sindacali e sulla organizzazione del lavoro, dall’altro.
Facciamo un po’ di ordine. Innanzitutto nella posizione di Marchionne vi è implicitamente un riconoscimento importante: per competere FIAT ha bisogno di investire significativamente in tecnologia, cosa che in un recente passato non ha fatto. Solo così FIAT potrà produrre auto in Italia a condizioni competitive.
Questa precisazione ci sembra importante, perché su questa rivista abbiamo più volte sostenuto che il recupero di produttività passa per una ripresa degli investimenti, soprattutto di tipo innovativo, accompagnata da una riorganizzazione dei luoghi di lavoro capace di rendere profittevoli quegli investimenti. Per questo motivo, anche se le condizioni per il recupero di produttività possono essere in parte indipendenti dalla ripresa degli investimenti, è molto difficile ritenere che il gap degli impianti italiani possa essere interamente recuperato a tecnologia costante. Ci preme quindi sottolineare che, secondo la stessa posizione della FIAT, la scarsa produttività non deriverebbe – come molti commentatori sostengono – da una inefficienza del mercato del lavoro (contratti di inserimento a garanzie crescenti, etc.), o da una modesta partecipazione dei lavoratori (cui si vorrebbe ovviare legando i salari ai profitti), quanto da un’organizzazione dell’attività produttiva che non sarebbe sufficientemente flessibile per garantire la redditività dei necessari investimenti innovativi.
Scordiamoci dunque di risolvere i problemi posti dal caso FIAT legando i salari alla produttività realizzata o ai profitti. o anche introducendo nuove tipologie contrattuali. Il caso FIAT pone l’accento su una diversa organizzazione del lavoro e su un diverso tipo di relazioni sindacali che superino la tradizionale impostazione fordista. In questa prospettiva. il rischio è anche una sofferenza sul fronte dei diritti, a partire da quello di sciopero.
Le nostre analisi suggeriscono che disaccoppiare investimenti e recupero di produttività attraverso l’esclusiva ricerca di un sistema di organizzazione del lavoro più efficiente non colga nel segno, ma è chiaro che FIAT batte su un tasto dolente, reale e concreto. Serve a poco sostenere – giustamente – che FIAT ha beneficiato a lungo di aiuti statali. La soluzione non può che venire da nuove relazioni nel mondo del lavoro che facciano perno su tre principi fondamentali.
1. Visto che ai lavoratori si propone uno scambio investimenti-salari/diritti occorre individuare nuove forme di partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali; il progetto per la competitività del paese passa per un coinvolgimento locale dei lavoratori che non può essere affrontato dal contratto nazionale.
2. Il progetto deve portare ad un patto per l’incremento della produttività attraverso l’innovazione cui vincolare le retribuzioni, ciò che abbiamo da tempo chiamato il tasso di crescita “programmato”, o “contrattato”, della produttività.
3. Se una ridefinizione dei diritti in sede locale deve verificarsi, questa deve essere bilanciata da una ridefinizione di elementi di garanzia sul fronte del welfare, con una riduzione dei margini di flessibilità e del dualismo del mercato del lavoro.
L’ultimo punto merita un breve approfondimento. Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario diverso da quello che aveva ispirato la moderazione salariale e lo “scambio politico” degli anni ‘90: ridurre i salari dando in cambio ai sindacati maggior potere nelle decisioni di politica economica. Oggi la partita si gioca in azienda, la vicenda Fiat suggerisce che il problema posto dal mercato globalizzato non sia tanto quello di salari troppo alti, quanto i modi e i tempi intorno ai quali sono organizzati i luoghi di lavoro, insieme ai diritti goduti dai lavoratori a tempo indeterminato. Non si deve però dimenticare che molti altri lavoratori questi diritti non li hanno mai conosciuti. Bisogna dunque inquadrare il problema specifico all’interno della necessità di riorganizzare complessivamente il mercato del lavoro, eliminando progressivamente le inefficienti e inique differenze esistenti in termini di salario, diritti e contribuzione pensionistica evitando derive localistiche. E’ il diritto del lavoro unico verso cui tendere, non l’assetto del singolo impianto industriale, che deve risultare coerente con il processo competitivo in atto a livello internazionale e con il desiderato cambiamento dell’assetto produttivo. Se l’insieme dei diritti garantiti dal contratto nazionale non possono essere considerati indipendenti dalle dinamiche internazionali, non possono esserlo neanche quelli di chi oggi ne ha in misura insufficiente.
Questi tre principi, forse difficili da perseguire, contribuirebbero a riportare il dibattito sulla strada della soluzione dei problemi e non del muro contro muro, con una parte che esce dal contratto nazionale per avere le mani libere e l’altra che, dietro il vessillo dei diritti, corre il rischio di perdere un settore importante del sistema produttivo. Essi potrebbero rappresentare il fondamento su cui realizzare un patto capace di ripensare, nello stesso tempo, il sistema complessivo dei diritti e le forme organizzative dei luoghi di lavoro, in modo da rendere entrambi coerenti con un assetto produttivo capace di competere nel mercato globalizzato. Se questo nuovo equilibrio complessivo non può che essere il risultato di un processo negoziale affidato alle parti sociali, il governo dovrebbe favorire con ogni mezzo possibile il suo raggiungimento. Ci auguriamo che anche questa occasione non vada sprecata.