Nel numero della rivista Time che esce in questi giorni (1) si affrontano questioni dell’economia, della situazione a livello mondiale e di cambiamenti demografici e sociali. Vengono delineati scenari e previsioni per il futuro (il titolo in effetti è impegnativo: “10 idee per i prossimi 10 anni”). In uno degli articoli si affronta il tema del sorpasso che si sta verificando nella popolazione americana: la componente “bianca” diventerà minoritaria rispetto alle diverse “minoranze” presenti negli Stati Uniti. Ci si interroga sulle implicazioni di questo cambiamento (implicazioni rilevanti, è facile rendersene conto, anche in termini culturali e simbolici e politici). Partendo dai dati del censimento 2010 si formulano previsioni demografiche e sociali per il 2050: si segnala che il “sorpasso” si verificherà a livello nazionale, ma con variazioni tra i diversi Stati. I bianchi, dunque, “una nuova minoranza” in America. A tal proposito si parla della “crisi di ansia dei bianchi”.
Mi ha colpito il fatto che questi dati siano annunciati e percepiti come un passaggio inatteso. Molti degli aspetti di cambiamento su cui si discute erano già previsti in uno studio pubblicato nel 2001 (National Research Council, "America Becoming Racial Trends and Their Consequences") dove si sintetizzava così: “la presenza di numeri crescenti di ispanici e di asiatici sta cambiando radicalmente la faccia dell’America”. Si segnalava che, già allora, c’erano 37 milioni di “persone che in casa parlano una lingua che non è l’inglese”. Si delineava una geografia segnata da aggregazioni “etniche” molto diverse tra i diversi Stati, agglomerati urbani e naturalmente collocazioni occupazionali e sociali. Negli Stati centrali, in quegli anni, si andava concentrando una popolazione a grande maggioranza “bianca”. A New York soprattutto portoricani, a Miami cubani, a Los Angeles messicani. Si registrava come, in una città come di Detroit, il 76% degli abitanti fosse “nero”. E si diceva che “il tipico cittadino bianco vive in un quartiere in cui l’83 % degli abitanti è bianco”.
I dati, più aggiornati, riportati nel numero di Time mostrano le implicazioni anche sociali e politiche di questi processi. In California i cosiddetti Anglos già dal 2000 costituiscono meno del 50% della popolazione complessiva. Da quegli anni, sono state avviate politiche restrittive nei confronti delle “minoranze” tradizionali e da parte di cittadini bianchi si fanno ricorsi contro casi di discriminazione “alla rovescia”.
Dunque, si dice nell’articolo, “è probabile che il rendersi conto, da parte dei bianchi, del loro status di inferiorità generi crescente inquietudine”. Ci si interroga su come peserà, anche a livello politico, questa percezione di perdita di diritti. Si prevede che ci saranno tensioni, rivendicazioni, scontri.
Non che, suggerendo un possibile e certo molto cauto confronto tra Europa e Stati Uniti, si possano sottovalutare specificità e differenze nei processi in atto. Ma vorrei partire da questi dati per portare l’ attenzione su come ci siano dimensioni e tendenze, certo molto rilevanti, anche nel nostro contesto territoriale, sociale, e politico, che non teniamo sufficientemente presenti. La conclusione del Rapporto del 2001 appariva molto forte: “la faccia dell’America sta cambiando”. Ma si segnalava, da parte della maggioranza “una cecità rispetto alla situazione degli altri: la loro condizione era considerata la norma, valida per tutti”. E ancora: “…i bianchi sembrano essere meno consapevoli degli altri gruppi dei cambiamenti e dei problemi che potranno derivare dalla crescente diversità nella popolazione”.
Potremmo prendere spunto da queste parole e riflettere sulla nostra - europea - cecità rispetto appunto “alla crescente diversità della popolazione, e ai cambiamenti e problemi che possono derivarne”.
Sul tema delle “identità” si ritorna, si dibatte - in Francia, ma non solo. Forse dovremmo provare ad anticipare l’impatto dei processi - non solo demografici - in atto, immaginare nuovi scenari urbani e territoriali, prevedibili e meno prevedibili movimenti dei diversi gruppi di popolazione all’interno dell’area europea, la diversificata utilizzazione della forza lavoro - maschile e femminile, le diverse generazioni, degli immigrati o dei tradizionali cittadini europei, etc.
La faccia dell’Europa sta cambiando. Certamente, non c’è adeguata consapevolezza delle caratteristiche di diversità e delle complesse combinazioni che saranno il dato “normale” della popolazione europea nei decenni che abbiamo davanti.
Il rischio è che si arrivi a pensarci con molti anni di ritardo.
(1) Del numero di Times ha parlato anche un articolo del 13 marzo scorso su Repubblica
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