L'India ritratta da Laura Salvinelli: una mostra fotografica a Roma sulle donne di Sewa. Pubblichiamo parti della presentazione di Mariella Gramaglia
Sewa, il sindacato autonomo delle donne indiane, è un fenomeno unico al mondo. Conta più di un milione di iscritte. Oltre a tutelare i diritti delle lavoratrici, è anche un movimento di liberazione delle donne. Nel 1974 ha inventato la prima banca di microcredito. Organizza una rete creativa di solidarietà mutualistica per le madri e le vedove, centri per la salute, progetti di alfabetizzazione, cooperative di produzione: un'ingegnosa comunità di welfare di cui le iscritte sono protagoniste.
Negli ultimi anni collabora con Progetto Sviluppo, la Organizzazione non governativa della CGIL.
L'acronimo significa: Self employed women's association. Un nome che implica orgoglio del lavoro, mai marginalità, nemmeno per le più povere: materassaie, ricamatrici, sigaraie, riciclatrici di rifiuti, fabbre ferraie, muratrici e manovali, vetraie, vasaie, le infinite industriose protagoniste dell'India degli slum e dei villaggi.
L'energia sociale e spirituale di Sewa affonda le sue radici nella tradizione sindacale gandhiana fin dal 1918. La rottura femminista, l'uscita dal sindacato dei tessili e la crescita di una leadership autonoma sono del 1981.
Laura Salvinelli non si limita a documentare le donne di Sewa, interroga invece la forza dei loro visi e dei loro sguardi. Nei suoi reportraits, ritratti di distanze e di similitudini, si affida a un dialogo fra pari. Il corpo, fiabescamente femminile, non è mai negato. La dignità è nei gesti. L'autorevolezza negli sguardi lucenti delle leader e delle lavoratrici.
La foto: Hansaben, lavoratrice delle ferriere di Rakhial (Laura Salvinelli, Ahmedabad, 2007)
“L'uso gujarati di chiamare una donna ben, sorella, ovviamente non è senza conseguenze; sembra instillare nelle relazioni un senso latente di sorellanza”. Lo scrive Ela Bhatt per spiegare la fortuna, nelle fila di Sewa, dell'antica usanza popolare della regione di Ahmedabad di accompagnare i nomi propri femminili con il suffisso ben. Il termine inscrive l'altra nella solidarietà, nell'attenzione, ma le conferisce anche statura, dignità. Anche se appartiene al mondo dei più umili.
Come i lavoratori del ferro, un lavoro privo di qualsiasi norma di sicurezza. Nelle ferriere le donne setacciano i residui di ferro, ne respirano la polvere, lavorano al buio. Gli uomini fondono il metallo vestiti di pochi stracci, il dothi arrotolato sui fianchi, le infradito di plastica ai piedi. Il caldo è da girone infernale e l’aria è irrespirabile. Ma l'antinfortunistica, la sicurezza del lavoro, in India sono ovunque un lusso ignoto. La vita dei poveri vale poco. Si sale a piedi nudi sulle impalcature dei cantieri - spericolati quadrilateri di bambù intrecciato e annodato. Si perde la vista fissando senza protezione il bianco lucente delle saline nelle distese del Kachchh. E si muore anche nei luoghi di produzione “moderni” e globali, quelli delle zone a sviluppo speciale, dove assai di rado i lavoratori hanno qualche potere di controllo su ritmi, orari e prevenzione degli infortuni. (m. g.)
"Indiana. Reportage dal più grande sindacato di lavoratrici autonome indiane". 19 dicembre-18 gennaio, Palazzo Incontro, via dei Prefetti 22, Roma
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