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Gli aiuti all'industria non sono politica industriale

27/01/2009

Con la crisi torna la voglia di pubblico. Ma una politica industriale europea non può esistere se non si connette alla politica della conoscenza orientando la domanda e la produzione future

1. Il contesto generale

Lo sviluppo e la crescita economica sono di nuovo al centro del dibattito accademico e politico. Questo dibattito è ancor più stringente se analizziamo l’evoluzione del sistema produttivo recente, “equiparabile” per intensità e profondità solo alla prima “rivoluzione” industriale studiata e analizzata dagli economisti classici (Riccardo, Smith e Marx). E’ cambiato il paradigma tecnologico, mentre il contenuto hight tech (h-t) dei beni e servizi venduti sul mercato internazionale ha proporzioni tali da condizionare l’accumulazione del sistema produttivo capitalistico. La componente h-t è passata dal 15% dell’interscambio internazionale (1985) al 30% (2005). Le implicazioni economiche e sociali nella produzione e nell’organizzazione del lavoro sono enormi e non sempre di facile lettura. In qualche modo la ricerca e sviluppo, la conoscenza, il sapere e saper fare, la formazione di base diventano non solo strategiche per il posizionamento internazionale, ma centrali per agganciare i paesi più avanzati.

Se per lunghissimo tempo la conoscenza tecnologica è andata accumulandosi senza che vi fosse alcun ponte con la “scienza”, nell’attuale società è avvenuta una progressiva saldatura tra ricerca scientifica e tecnologia. La convergenza non attiene solo al rapporto tra scienza e tecnologia, ma anche al processo di “consolidamento” della tecnologia esistente tra più filiere tecniche. Sostanzialmente si realizza un fenomeno chiamato “convergenza tecnologica”, che diventa stringente nell’attuale assetto produttivo. In qualche modo muta il paradigma dell’accumulazione, fino a modificare, ma allo stesso tempo ampliare, l’impostazione shumpeteriana circa la divisione tra innovazione e invenzione.

 

2. Definire la politica industriale

Definire l’oggetto politica industriale, in un contesto economico e tecnologico estremamente dinamico, è sempre più complicato. Infatti, sono molte, forse troppe, le variabili che concorrono alla sua realizzazione. Le cosiddette politiche di contesto, sostanzialmente mainstream, hanno condizionato le scelte di policy. Inoltre, l’allargamento degli attori istituzionali, la Comunità Europea in primis, la nascita della Wto, per non parlare della nuova centralità del territorio, determinano una inusuale difficoltà nel redigere o pianificare delle adeguate politiche industriali che non siano mere politiche per l’industria. Ma realizzare delle politiche per l’industria non significa fare politica industriale, almeno che non ci siano delle condizioni tecnologiche ed infrastrutturali pregresse capaci di anticipare la domanda. Infatti, la politica industriale ha senso economico solo nella misura in cui riesce a posizionare o guidare i processi di trasformazione dell’accumulazione del capitale e, per questa via, trovare degli equilibri macroeconomici superiori sia nella formazione del reddito e sia nella distribuzione del reddito.

3. Politica industriale europea

Se le misure dell’Ue sono di contesto e di concorso alla realizzazione di un ambiente economico per facilitare la competitività delle imprese, solo attraverso i principali atti di indirizzo economico è possibile estrapolare i lineamenti di politica industriale. In particolare il Trattato di Maastricht, titolo XIII, art. 130 e il trattato di Lisbona 2000 successivamente aggiornato nel 2005. Dalla analisi di questi documenti possiamo estrapolare (Maastricht):

  • aggiustamento strutturale;
  • promozione dell’ambiente favorevole allo sviluppo e alla cooperazione;
  • ricadute industriali delle politiche di innovazione tecnologica;
  • rafforzamento delle politiche di concorrenza.

Dal Trattato di Lisbona (2000) è possibile, invece, cogliere un impegno “orientativo”. Infatti, la crisi economica di quegli anni, la forte crescita degli Stati Uniti di quegli anni, “costringono” la Commissione ha trovare un orizzonte capace di affrontare il nuovo paradigma accumulativo fondato sulla conoscenza e l’alta tecnologia. Infatti, la Comunità Europea con la comunicazione cec 2002 (Industrial Policy in an Enlarged Europe) e cec 2004a (Fostering Structural Change: an Industrial Policy fora an Enlarged Europe) “prende atto che il vantaggio, in termini di bassi costi del lavoro, dato dalle imprese dell’Europa occidentale dall’allargamento a est, è solo momentaneo, e che quindi non allontana la necessità di risolvere i problemi di competitività. Pertanto occorre mobilitare una politica industriale che si sviluppi in particolare attraverso non solo le politiche per la ricerca e l’innovazione, ma anche attraverso la regolazione…”. Questi tratti della mission europea sono stati rafforzati con il vertice del Consiglio Europeo di Bruxelles dell’11-12 dicembre del 2008. Pur nell’autonomia degli stati, le misure per affrontare la crisi devono agire sull’innovazione tecnologica per far fronte alla sfida energetica ed ambientale. L’obiettivo di ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra entro il 2020, con la possibilità di traguardare il 30% dopo la conferenza di Copenaghen del marzo 2010, sono diventate la politica industriale dell’Europa. Le green tecnology e la conseguente domanda, cioè investimenti, delle imprese proprio per raggiungere gli obbiettivi indicati dall’UE, diventano la sfida di tutti i paesi europei. In qualche modo è strategica la domanda delle imprese ed il target dei loro investimenti. Sostanzialmente la possibilità e capacità di realizzare beni capitali ed intermedi determinerà l’uscita dalla crisi, assieme ad una nuova divisione internazionale del lavoro.

4. Lineamenti di politica industriale

La crisi economica e finanziaria ripropone il pubblico come soggetto del cambiamento e di regolazione del mercato, ma le misure fino ad oggi predisposte agiscono sempre a valle dei processi accumulativi. Solo se gli stati hanno acquisito un background di struttura adeguato l’allargamento della domanda può avere un esito positivo, diversamente possono aumentare solo i vincoli (esteri) alla crescita.

 

Se la domanda aggregata diventa sempre più domanda di sostituzione, mentre quella delle imprese tende a modificare i processi accumulativi e per questa via la specializzazione produttiva, senza un intervento capace di condizionare questa domanda di “adeguamento” ai vincoli ambientali ed energetici, è difficile sostenere politiche industriali di contesto, soprattutto quando si sono consolidati i ritardi legati alla conoscenza. Per paesi come l’Italia o quelli che possono avere la stessa specializzazione produttiva vuol dire un approfondimento non della crisi, piuttosto l’impossibilità di uscire da questa crisi se non attraverso una divisione internazionale del lavoro sempre più bassa. È proprio nella capacità di anticipare la domanda di beni e servizi che si potrebbe declinare una politica industriale adeguata per un paese “arretrato” (tecnologicamente) come l’Italia.

Queste note riassumono un articolo più lungo ed esaustivo, del quale si può qui scaricare la versione pdf:

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