Articolo tratto da Luogoespazio.info, uno spazio di informazione e approfondimento curato da studiosi universitari di diverse branche della geografia.
Il lavoro (e i lavoratori) sopra ogni altra cosa. Letteralmente “sopra”.
Luogoespazio.info presenta qui una carta che riporta diversi episodi di lavoratori in difficoltà con il posto di lavoro. È la modalità ad accomunare le loro contestazioni: sopra i tetti o sulle gru delle loro fabbriche, aziende, società. Questo rappresenta la carta, anche se, va detto, un semplice punto su una mappa non può essere esaustivo. Nella rappresentazione, che riduce la realtà a due sole dimensioni, lo stesso simbolo (il punto) non sarebbe in grado di distinguere tra chi lavora come di consueto all’interno dell’edificio e chi manifesta sui tetti contro la chiusura delle strutture; così ad ogni punto è associato il riferimento ad un articolo di stampa. Non perché sia il più rappresentativo di quella situazione, ma, più semplicemente, per poter costituire un punto di partenza per una esplorazione.
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La carta “Il lavoro sopra tutto”, che sarà costantemente aggiornata, rappresenta un tentativo di superare la volatilità del palcoscenico mediatico, utilizzando lo strumento della rete come ambito di memoria, analisi e approfondimento. Gli episodi già oggi riportati ci sembrano testimoniare un fenomeno che, sostanzialmente, si è diffuso in tutta la Penisola; una strategia di uso dello spazio (anzi, degli spazi) più spontanea e imitativa che pianificata e organizzata, ma che, comunque, vale la pena di essere conosciuta.
E la geografia cosa c’entra? Si limita alla redazione delle rappresentazioni cartografiche o può essere utile anche alla comprensione della complessità di fenomeni sociali come questo? Come ci racconta Franco Farinelli, utilizzando la mitologica impresa di Ulisse che fugge dal Ciclope nascosto sotto la pancia di un montone (Il globo, la mappa, il mondo – 3° puntata), la geografia è anche e soprattutto analisi dei rapporti di gerarchia e dei sistemi di pensiero. È capacità di lettura dello spazio, da esercitare tenendo conto di due elementi essenziali: «la dissociazione tra la funzione e la posizione delle cose e […] la riduzione dei rapporti reali ad astrazioni formali». Un lavoratore che, invece di essere attivo all’interno del proprio posto di lavoro, ne presidia il tetto, è appunto una dissociazione tra funzione e posizione.
Quella sui tetti appare un tipo di contestazione che, a ben vedere, può fornire più di un elemento di comprensione della società italiana contemporanea. Mentre i colleghi francesi tendono ad utilizzare un’altra modalità di protesta, anch’essa con una sua profonda simbologia spaziale (come il confinamento dei loro dirigenti all’interno dell’azienda), le azioni di autotutela dei lavoratori italiani sono sempre più spesso accomunate dalla simbolica “presa” di postazioni alte, e visibili.
C’è, in questa modalità, il tentativo di evidenziare un ribaltamento del rapporto tra i fattori della produzione: qui i lavoratori stanno “più in alto” dei meri beni strumentali. Come a dire che contano di più, che devono venire prima, essere considerati più importanti. Ma c’è, anche, un altro elemento, forse più specifico dell’Italia: quello dell’apparenza, dell’“esistenza mediatica” (si veda anche l’articolo Il corpo giusto, pubblicato qui da Rachele Borghi). Si dice talvolta che qualcosa non accade davvero se non compare in televisione. Ovviamente non è proprio così, o, almeno, non può esserlo a tutte le scale. Un gruppo di lavoratori che rischia il posto di lavoro, infatti, non può non essere “reale” in ambito locale: il problema esiste ed è percepito a livello territoriale. Quel che non riesce a delinearsi pienamente è la sua dimensione.
Quando, non molti anni fa, l’industria occupava una porzione molto più rilevante dei salariati dei Paesi “occidentali”, il maggior numero di lavoratori in questo settore comportava una condivisione ben maggiore dei problemi e un vero e proprio “senso di appartenenza” ad una condizione esistenziale, quella di operaio. Una condizione esistenziale che, nei momenti di crisi, trovava una immagine collettiva nello spazio della piazza, che era ancora, come tipicamente lo è stato in Italia, luogo principe della vita sociale. Con dei numeri più ridotti, e con la spada di Damocle di una smobilitazione di una parte notevole del sistema industriale italiano (d’accordo, chiamiamola delocalizzazione, che appare meno disfattista), il risultato è una parcellizzazione del problema. Nel frattempo l’idea della competizione per la sopravvivenza permea il contesto culturale anche popolare: pensiamo a certi programmi televisivi, standardizzati in tutto il mondo, che appaiono molto democratici solo perché il telespettatore può escludere, votando (a pagamento), qualche partecipante. Nel mondo del lavoro l’esito è frequentemente l’opposto della solidarietà di “classe”: il mors tua, vita mea può finire per rappresentare un monito: «vedi? quell’azienda è in crisi, e sta chiudendo. Se anche noi creiamo problemi, pure il nostro boss perde la pazienza e se ne va, con baracca e senza burattini, in Romania, o in Cina, o chissaddove».
Un sentimento che, stando ad esempio al caso della INNSE, in cui la reazione dei lavoratori ha impedito lo smantellamento dell’impianto e portato ad una riapertura dello stabilimento sotto una nuova proprietà, non va considerato ineluttabile: le azioni spaziali dei lavoratori possono contribuire a modificare la futura geografia della produzione del Paese, già disegnata sulla carta e in fase di realizzazione.
Ecco perché queste manifestazioni hanno un significato che, ci pare, vale la pena di evidenziare: invece di nascondersi al livello più basso, di legarsi sotto la pancia del montone, come fece Ulisse, i lavoratori fanno l’esatto contrario: usano lo spazio andando sui tetti, come per tentare di sfuggire alla marea montante di un diluvio universale che sta spazzando via una parte del nostro sistema economico, senza che se ne sia progettato uno alternativo pronto a sostituirlo. Certo, nel far questo i (pochi) lavoratori sono ben consci che si tratta forse dell’unico modo che gli è concesso per superare la scala della dimensione locale – quella della percezione territoriale diffusa ma rassegnata del problema – per proiettarsi in quella nazionale; l’unica via per “occupare” la nuova vera piazza (per riempire fisicamente uno schermo televisivo bastano una decina di persone) e porre il problema a livello collettivo.
Si tratta di una piazza che, per quanto possa apparire ugualitaria (la televisione arriva nelle case di tutti) non lo è davvero: contrariamente a quelle vere, le piazze mediatiche che realmente contano non sono più delle dita di una mano, e, ancora a differenza di quelle tradizionali, non sono degli spazi pubblici. Hanno un imprenditore, o un funzionario, che decide a chi e quando aprirle o serrarle. Ma questa è ancora un’altra questione, della quale, certamente, luogoespazio.info si occuperà prossimamente.