La manovra
Il decreto legge 98/2011 comporta misure di finanza pubblica che dovrebbero avere un effetto crescente sulla riduzione dell’indebitamento netto nel quadriennio 2011-2014: poco più di 2 miliardi nel 2011, circa 5,6 miliardi nel 2012, 24,4 nel 2013 e infine 48 miliardi dal 2014. Considerando che in generale si tratta di misure permanenti nel tempo, da queste cifre si capisce anche qual è l’entità dell’intervento in ciascun anno, dopo i 2 miliardi iniziali del 2011: 3,6 miliardi nel 2012, circa 19 nel 2013 e poco meno di 24 dal 2014. Questi sono i numeri certificati (bollinati, si dice in gergo) dalla Ragioneria Generale. Si vede subito che circa il 90% della correzione è rimandato al biennio 2013-2014. In questo c’è una (relativa) coerenza tra il decreto 98/2011 e il DEF, il Documento di Economia e finanza, pubblicato ad aprile 2011. In realtà, nel DEF si escludeva la necessità di alcun intervento per il biennio 2011-2102, mentre nel decreto (dopo l’emendamento al Senato) vengono previste risorse aggiuntive per coprire spese che, evidentemente, erano state sottostimate nel DEF (non risulta, infatti, che gli obiettivi di indebitamento netto per il biennio siano mutati rispetto a quelli dichiarati nel DEF). La correzione avviene in misura leggermente inferiore a quella ritenuta necessaria (in particolare per il 2012) da alcune istituzioni internazionali (la Commissione Europea e il Fondo Monetario) ma la differenza residua corrisponde a qualche decimale di punto di PIL. L’aspetto più criticato della manovra delineata nel DEF, tuttavia, era proprio la scansione temporale degli interventi, con il rinvio dell’intervento al 2013-2014 un biennio lontano e, soprattutto, che si pone a cavallo della fine della legislatura. Questo aspetto è stato sostanzialmente mantenuto con una rilevante novità (non positiva) in termini di composizione della manovra.
Il rinvio al biennio 2013-2014
Nel DEF, per il biennio 2013-2014 il Governo prevedeva la necessità di una manovra correttiva pari a 2,3 punti di Pil cumulati nel biennio da effettuarsi interamente attraverso la riduzione della spesa primaria. Mancavano, tuttavia, i dettagli su quali comparti di spesa sarebbero stati colpiti e quali modalità sarebbero state adottate per attuare questa riduzione. Il decreto 98/2011 rovescia completamente questa impostazione: il 60% delle riduzioni dell’indebitamento netto da realizzarsi nel 2014 sono attribuite ad incrementi dei livelli di tassazione, mentre il 40% è affidata a tagli della spesa. Il cuore della manovra fiscale è l’inclusione nel decreto legge 98 dei tagli alle (cosiddette) agevolazioni fiscali, dal valore complessivo di circa 160 miliardi annui. Chiunque legga l’elenco delle stesse incluso nell’allegato C-bis del decreto si rende conto che il termine agevolazioni è spesso del tutto improprio. Circa 40 miliardi di queste agevolazioni sono le detrazioni per lavoro dipendente, uno strumento indispensabile di equità considerando che ai lavoratori dipendenti non è concessa la deduzione delle spese per la produzione del reddito, sebbene si debba ammettere che queste detrazioni hanno spesso assunto nel tempo anche finalità diverse (di discriminazione qualitativa, di compensazione delle minori possibilità di evasione, ecc.) Altri 40 miliardi sono determinati dal fatto che una parte dei beni di largo consumo (in particolare quelli alimentari) sono soggetti alle aliquote ridotte dell’Iva, il 10 o il 4%, in luogo dell’aliquota ordinaria del 20%. Anche in questo caso il termine agevolazioni è fuorviante: si tratta in effetti di una scelta di politica tributaria, motivata da ragioni di equità sociale e del resto presente in tutti i paesi dell’Unione Europea (sebbene non nella stessa misura). Ulteriori 10 miliardi sono le detrazioni per i carichi familiari, ed altri, ingenti, importi sono comunque legati al lavoro, alla casa o all’esercizio di attività di impresa.
In effetti di agevolazioni prive di giustificazioni di carattere generale, o comunque che non siano frutto di scelte di politica tributaria il cui fondamento può essere messo in discussione ma non ignorato del tutto, ve ne sono, ma hanno un’incidenza limitata sui famosi 161 miliardi. La manovra sceglie invece di prevedere il taglio di queste agevolazioni in misura lineare e pari al 5% nel 2013 e del 20% nel 2014 a meno che il Parlamento non intervenga, entro settembre 2013, con una riforma che generi una riduzione dell’indebitamento netto di non meno di 4 miliardi nel 2013 e di 20 miliardi dal 2014 (rispettivamente corrispondenti a circa il 2,5 e a poco più del 12% dell’ammontare complessivo di 161 miliardi).
Il fatto che la manovra punti su inasprimenti delle imposte sul reddito rende non credibile il mantenimento delle ipotesi macroeconomiche formulate nel DEF, in cui, invece, la correzione dei conti avveniva completamente dal lato delle spese, in astratto improduttive. Non è infatti possibile che un intervento di simili dimensioni, attuato per circa il 50% attraverso incrementi di imposte sui redditi (IRPEF e IRES) che sono note per il loro effetto recessivo, non abbia effetti sulla propensione al consumo e all’investimento. Se il tasso di crescita del Pil, nel biennio 2013-2014 sarà inferiore a quello previsto nel DEF e tuttora incorporato nelle previsioni di finanza pubblica (1,5 e 1,6%, rispettivamente, in termini reali), lo sforzo dal lato del numeratore (cioè l’incremento delle imposte) potrebbe essere almeno in parte vanificato dal lato del denominatore (cioè la bassa crescita del Pil).
Non solo. Più del 40% degli interventi fiscali dovrebbero gravare sul lavoro dipendente, con effetti regressivi difficilmente sopportabili e giustificabili (si veda l’analisi di Massimo Baldini su lavoce.info).
Quali alternative?
Il fatto che un governo di centro-destra abbia così apertamente abdicato a qualsiasi disegno di riduzione del carico fiscale sgombra il campo da numerosi equivoci . A questo punto, la discussione sulla composizione del prelievo fiscale in Italia può riprendere da dove è cessata poco tempo fa, ovvero sul tema della tassazione patrimoniale. Su nel merito ho già provato a fornire alcune indicazioni sulle ragioni teoriche e pratiche di un incremento dell’imposizione patrimoniale, tra cui vorrei qui ricordare, in particolare, il fatto che le imposte sul patrimonio (specie immobiliare) sono le meno negative per la crescita economica. Più in concreto, questa implicherebbe, innanzitutto, il ritorno all’ICI anche sulle prime case, la cui abrogazione è stata un errore sia dal punto di vista del gettito, sia vista la sua perfetta coerenza con il federalismo fiscale. Il gettito potrebbe essere superiore a quello perso dalla vecchia ICI, e anche distribuito più equamente, se al posto delle rendite catastali venissero utilizzati i valori di mercato, quantomeno quelli disponibili nella banca dati dell’OMI (Osservatorio del mercato immobiliare) dell’Agenzia del Territorio.
Per i patrimoni finanziari, invece, andrebbe adottata una soluzione “all’olandese” ovvero una tassazione basata sul rendimento presunto dei patrimoni stessi. Giampaolo Arachi ha da parte sua ricordato che il modello olandese, che pure presenta vantaggi teorici, appare di difficile attuazione da un punto di vista politico perché può portare a tassare chi non ha reddito. Tuttavia, lo scenario politico è oggi cambiato. Tutti i cittadini dovrebbero essere consapevoli del fatto che, se non si troveranno alternative, tra il 2013 e il 2014 verrà realizzato un intervento fiscale di dimensioni senza precedenti, estremamente iniquo e del tutto inefficiente dal punto di vista della crescita del sistema economico. A questo punto si tratta di cercare il male minore.