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Le relazione pericolose: i fornitori torinesi e la Fiat

18/02/2011

 

Le ripercussioni delle decisioni Fiat sulla futura operatività della filiera, in particolare sul segmento piemontese, non sono state, se non marginalmente, toccate dal dibattito.

Vale la pena di interrogarsi come e se si sia modificata, nel corso del tempo, la “relazione di cattura monopsonistica” delle imprese fornitrici piemontesi, quale il futuro ipotizzabile, quali le politiche più appropriate di sostegno. I risultati e le proposte di due lavori1.

L’industria dell’auto è un caso esemplare del mutamento strutturale negli assetti organizzativi delle imprese che caratterizza la “nuova globalizzazione”2. La produzione del bene finale auto è infatti ripartita tra più imprese, localizzate in paesi diversi, che assumono compiti diversi all’interno di una catena globale della fornitura (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=1093&Itemid=70 ).

In altri tempi, ai tempi del decentramento produttivo degli anni ’70 e ’80, la catena della fornitura era esclusivamente “locale”, veniva designata con il termine “indotto”. L’indotto Fiat era costituito dall’insieme di imprese, localizzate intorno ai diversi stabilimenti Fiat in Italia (alla fine degli anni ’80 la produzione di auto in Italia del gruppo Fiat è pari al 91% della produzione complessiva), a cui la grande impresa esternalizzava fasi della produzione in un contesto di mercato monopsonistico. Di indotto oggi non si parla (quasi) più, al suo posto è subentrato il termine filiera.
In Italia, l’insieme delle imprese che costituiscono la filiera dell’auto è fatto di 2500 aziende , che fatturano, nel 2009, 42 miliardi di euro, impiegano 171mila occupati, esportano circa il 43% del fatturato. Il “pezzo” più importante della filiera automobilistica, che incide per circa il 49% del fatturato e degli occupati della filiera nazionale, è localizzato nel Piemonte.
Negli anni più acuti della crisi del gruppo Fiat (2000-04), un insieme selezionato di imprese della filiera piemontese reagisce alla perdita sensibile delle quote di mercato del gruppo Fiat, sia in Italia che in Europa, e alla crescente delocalizzazione del gruppo Fiat (in Polonia, in Argentina e in Brasile), imboccando la strada della “maggiore internazionalizzazione”. Le imprese più produttive scelgono “una strada alta” alla sopravvivenza, attraverso la diversificazione del portafoglio clienti, andandoseli a cercare oltre confine ed inserendosi nelle catene globali della fornitura. Negli anni più bui dell’impresa leader italiana (ma di crescita a livello globale dell’industria dell’auto), dunque, le imprese fornitrici piemontesi si internazionalizzano e allentano il rapporto di dipendenza con la Fiat: i nostri due studi dimostrano che, nel primo quinquennio della passata decade, la probabilità di un’impresa fornitrice di internazionalizzarsi è, infatti, correlata negativamente con le vendite effettuate alla Fiat.
Che cosa accade però negli anni più recenti? La crisi mondiale del 2008 ha avuto pesanti contraccolpi sull’industria dell’auto: nel 2009 sono stati prodotti, nel mondo, circa dieci milioni in meno di autoveicoli rispetto al 2008 (CCIAT, 2010, http://images.to.camcom.it/f/Studi/10/10899_CCIAATO_172010.ppt#645,1 , Osservatorio sulla filiera autoveicolare italiana 2010).

La filiera italiana ha ridotto i livelli di produzione, accusato una sensibile flessione dei ricavi (- 15, 8%), diminuito la quota di fatturato esportato (- 15%). Dato rilevante: in questi stessi anni la dipendenza delle imprese fornitrici italiane dalla Fiat è sensibilmente aumentata. Nel 2008 era mediamente pari al 48% dei ricavi (per le imprese piemontesi uguale a 47,3%), nel 2009 sale sensibilmente e si attesta, in Italia, su un valore medio del 63, 2% , sale al 78,1% per le imprese piemontesi.
Come valutare l’aumento della dipendenza? In attesa del successo della scommessa di Marchionne e che il piano industriale annunciato diventi realtà, che cosa può fare la politica industriale, ammesso che ce ne fosse una sull’agenda del governo in carica? La nostra proposta è cambiare il disegno e il target della politica di sostegno.
Come è noto, in passato, una forma impropria di "politica industriale" in Italia si é focalizzata su: a) provvedimenti di rottamazione del parco auto esistente per sostenere la domanda; b) finanziamento della CIG ordinaria e straordinaria quando gli effetti momentanei dei provvedimenti di rottamazione si esaurivano. Fiat è, ovviamente, stata il maggiore beneficiario di entrambi gli interventi sia perché detiene una quota molto significativa (anche se decrescente) del parco auto del mercato nazionale, (ha quindi goduto di una certa 'isteresi' dell'acquirente); sia per le dimensioni ragguardevoli della occupazione nei suoi stabilimenti in Italia.
Molto più avaro è stato il sostegno alle imprese della filiera, probabilmente anche sulla base della presunzione che un’agevolazione alla Fiat si sarebbe “propagata automaticamente” alle imprese della filiera italiana
Noi suggeriamo un ripensamento del disegno di politica industriale, dei suoi potenziali beneficiari e interlocutori. Come è risultato palese nel dibattito dei giorni scorsi, Fiat si approvvigiona ovunque e non ha peraltro con chiarezza delineato quali le plausibili ripercussioni sulla filiera italiana del futuro piano industriale. Come abbiamo visto, quando il mercato dell’auto cresceva, le migliori imprese di componentistica hanno cercato di correre ai ripari investendo le risorse necessarie a uscire dalla monocoltura Fiat, allargando il portafoglio clienti e prodotti. Sotto i contraccolpi della crisi mondiale (e in presenza di una sensibile contrazione della produzione mondiale), la proiezione internazionale si è fatta più dura e selettiva, ha lasciato sul terreno molte vittime e accresciuto la dipendenza dalla Fiat.
Una politica industriale stabile, coerente e con un orizzonte temporale adeguato, dovrebbe considerare le residue possibilità di sostegno e rilancio della filiera autoveicolare. Qualche esempio.
Uno studio recente3 sulle imprese francesi mostra che hanno successo quegli interventi pubblici che minimizzano il costo informativo sui mercati esteri. Una misura complementare potrebbe essere mirata a risolvere un tipico problema di coordinamento. In questo caso occorrerebbe incentivare le imprese della filiera a consorziarsi per raggiungere la massa critica necessaria ad affrontare i costi di transazione internazionale e agevolare così la penetrazione dei mercati esteri. Infine, occorrerebbe, invece di blandire sempre e solo Fiat, cominciare a invitare i suoi concorrenti a discutere se sono interessati a progetti in Italia, dove, in alcune aree esistono, come abbiamo visto, significative economie di agglomerazione di cui avvantaggiarsi. Un ministro dello sviluppo economico potrebbe farlo, rompendo uno dei tabù più sacri della politica nazionale. E forse questo mandato potrebbe segnalare anche alla Fiat che il mercato dei beni intermedi, della componentistica, è un mercato contendibile.

1. Bacchiocchi E., Florio M., Giunta A., Internationalisation and the agglomeration effect. Evidence from the Italian automotive supply chain, working paper n. 30-2008, Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche, Milano, 2010.
Castelli C., Florio M, Giunta A., in corso di pubblicazione, How to cope with in the global value chain: lessons from case-studies of Italian automotive suppliers, International Journal of Automotive Technology and Management, vol. 11, 2011.
2. Accetturo A., Giunta A., Rossi S., (2011), ‘Le imprese italiane tra crisi e nuova globalizzazione’, Questioni di Economia e Finanza, n. 86, Gennaio, Banca d’Italia, Roma, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2
3. Koenig P., Mayneris F. and Poncet S. (2010) ‘Local exports spillovers in France’, European
Economic Review 54, pp. 622-641.

Tratto da www.nelmerito.com
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