Sarà forse il caso di riflettere bene sui dati diffusi qualche giorno fa dall’Istat sul crollo degli investimenti, perché hanno implicazioni politiche di non piccolo rilievo.
Si può certo dire che, visto che siamo in mezzo alla più grave crisi mondiale dopo quella degli anni ’30, e visto che una delle sue caratteristiche è stato il prosciuganento del credito alle imprese, questo crollo è, se non “normale”, almeno comprensibile. Ma la riflessione non può finire qui, in un paese dove da anni si discute di produttività stagnante e di “declino”.
Che la produttività in Italia non cresca da oltre un decennio è un fatto. Ma sul perché questo accada non ci sono spiegazioni semplici e nemmeno risposte univoche. Si tratta di un problema estremamente complesso, a partire dalla sua misurazione sulla cui precisione sono stati spesso avanzati dei dubbi.
E’ invece semplice e univoca la risposta politica che è stata data a questo fenomeno: bisogna lavorare di più, eliminare le assenze, guadagnare di meno, i lavoratori devono rinunciare ad alcuni di quelli che finora erano considerati diritti, la massima flessibilità del lavoro e del salario sono indispensabili. Gli sforzi del governo per emarginare la parte del sindacato meno “conciliante”, l’accordo separato sulla riforma della contrattazione, la detassazione degli straordinari e l’obiettivo di svuotare di significato la contrattazione nazionale sono la conseguenza di questa interpretazione.
Ma per aumentare la produttività non serve solo “lavorare di più”. Se devo scavare le fondamenta di un palazzo posso organizzare turni continui di uomini robusti con pala e piccone, ma se posso disporre di una sola persona che manovra una scavatrice di certo si farà prima. E se cambio la scavatrice con una nuova e più veloce il risultato sarà ancora migliore. Insomma, bisogna che il lavoro sia messo in condizione di fruttare il massimo possibile, e questo si ottiene con l’organizzazione, la tecnologia, l’innovazione. Si ottiene, insomma, con gli investimenti.
Già sappiamo che da sempre gli investimenti in Italia sono – in rapporto al Pil – circa la metà della media europea. Ora lo studio dell’Istat ci dice che nel crollo più pesante da quando esiste la statistica l’industria è andata sotto la media (-14,9% contro –12,1). Che gli investimenti in Ict (Information communication technology), fattore chiave in questi anni, sono scesi dell’8,1% dopo il –8,9% del 2008, che quelli in macchine e attrezzature sono in calo dal 27,3% al 24,8, che gli investimenti per addetto sono passati nell’industria dagli 11.600 euro del 2007 agli 11.300 del 2008 ai 10.600 dell’anno scorso, nonostante il calo dell’occupazione. Un panorama sconsolante.
Pensare che si possa compensare questo deficit di investimenti e di innovazione con un utilizzo più intensivo e meno costoso della forza lavoro non è soltanto ingiusto: è semplicemente sbagliato. A sperare che questo governo si faccia carico del problema si peccherebbe probabilmente di ottimismo. Dovrebbero però rifletterci bene gli imprenditori e chi li rappresenta, visto che è nel loro interesse.