Bisogna sapere quanto pesano nella nostra economia le multinazionali, per capire l’esatta dimensione dell’allarme che ha destato la notizia di un buon numero di aziende a capitale estero che sta per lasciare (o che ha già lasciato) l’Italia. Alcoa, Severstal, Glaxo,Yamaha, Pfizer, Motorola, Alcatel: nomi noti del mercato globale che abbandonano il nostro territorio. Sono soprattuto le eccellenze e i centri di ricerca a emigrare – e questo è uno dei dati nuovi rispetto al passato, quando erano soprattuto le produzioni mature a traslocare –, per spostarsi verso il nuovo baricentro economico internazionale, Cina e India in particolare, che nel frattempo hanno imparato a innovare, spesso in modo più veloce e inventivo dell’occidente.
Ma non necessariamente si va verso i mercati emergenti, meta preferita in passato delle nostre imprese che delocalizzavano. Per effetto di una riorganizzazione aziendale, accelerata dalla crisi mondiale, ora si emigra anche verso altri paesi europei o verso gli Usa. Il quadro che ne viene fuori è di un’Italia sempre più periferia dei paesi sviluppati.“La chiusura delle filiali italiane – dice Carlo Trigilia, professore di Sociologia economica all’università di Firenze – indica la marginalità del nostro paese nelle decisioni delle multinazionali, che preferiscono tagliare laddove non hanno interessi strategici specifici. Il caso della farmaceutica è emblematico: non basta più solo la vicinanza dei mercati”.
Non è la prima volta. In realtà, non è la prima volta che l’Italia si trova a fare i conti con una fuga di aziende estere: già tra il 2002 e il 2006, secondo l’Ice, le dismissioni di società straniere avevano raggiunto la quota di 100 l’anno, superando di gran lunga le nuove partecipazioni. Anche allora, i nomi erano di tutto rispetto, dalla multinazionale indiana Essar, che si ritirò da Ilva Laminati Piani, alla Gm, che abbandonò la joint-venture con Fiat Auto nel 2005. Solo che in quel frangente non fece scalpore, e nessuno gridò alla fuga. “È fisiologico che le imprese sovranazionali – osserva Giorgio Barba Navaretti, professore di Economia internazionale all’università Statale di Milano – possono aprire e chiudere le loro attività in un paese, fa parte del gioco. Naturalmente, fa più rumore quando chiude una multinazionale e tuttavia è legittimo sostenere che l’Italia ha sicuramente qualche vecchio problema strutturale di troppo”. Con l’economia in ginocchio, il timore di una valanga, di un ritiro generalizzato e inarrestabile dalle produzioni di punta, dai settori più tecnologici, a cui i governi da tempo possono opporre solo pochi e deboli interventi, fa venire i brividi. Fabrizio Onida, docente di Economia internazionale alla Bocconi di Milano, condivide l’allarme:“Destano preoccupazione più di altre vicende come quella di Glaxo in Veneto, perché è segno che sta cambiando l’atteggiamento delle grandi imprese che fanno ricerca. Perdiamo terreno dove dovremmo essere più forti. È vero che la riorganizzazione sta interessando anche altri paesi avanzati, ma l’Italia ha problemi di attrattività legati a uno dei più bassi tassi di crescita, mentre la Cina cresce a ritmi vertiginosi e sta investendo cifre imponenti sulla formazione e sulla propria rete di laboratori”.
Multinazionali in Italia. Ma quante sono, quanto fatturano, in quali settori sono determinanti, in che modo è mutato l’apporto nei vari comparti nel corso degli anni? Secondo gli ultimi dati disponibili, elaborati dal Politecnico di Milano per l’Ice, le imprese italiane partecipate dall’estero sono 7.152, controllate da 3.961 società investitrici. Un forza d’urto da cui dipendono 853.000 lavoratori (520.000 nell’industria, oltre 100.000 nel commercio all’ingrosso), e che fattura ogni anno 429 miliardi di euro, 15 volte il valore dell’ultima legge finanziaria, per intendersi. Il grado degli investimenti esteri in Italia, qualora si consideri l’intera occupazione interna o quella relativa alle imprese con 20 o più dipendenti, è pari rispettivamente al 9,6 per cento e al 14,8 per cento. Si tratta comunque del dato più basso d’Europa, segno di una debolezza di sistema che viene da lontano. In Spagna, solo per fare un esempio, il 40 per cento del prodotto interno lordo è determinato dalle multinazionali, in Italia appena il 16 per cento. Malgrado il basso tasso di “multinazionalizzazione” della nostra economia, non c’è comparto in cui queste imprese non abbiano interessi: un quinto degli occupati in realtà con più di 20 dipendenti nel settore industriale e nel commercio all’ingrosso dipende da una multinazionale, mentre, per effetto della liberalizzazione e della privatizzazione delle aziende pubbliche, un occupato su 10 nelle utility dipende da un’impresa estera. Non solo. Negli ultimi anni, le principali acquisizioni nel nostro paese hanno riguardato imprese operanti soprattutto nella meccanica strumentale, nella strumentazione e in taluni settori a forte intensità di economie di scala (come i cavi e gli elettrodomestici). Si tratta di imprese concentrate in ambiti produttivi e tecnologici.“Ma negli ultimi anni, le imprese hi-tech sono sempre meno interessate ai nostri centri di ricerca e più a quelle attività che servono ad adattare i prodotti al nostro mercato – evidenzia Sergio Mariotti, professore di Economia industriale al Politecnico di Milano – e questo perché riscontrano nel nostro sistema una scarsa capacità d’innovare”.
Perché fuggono. Qual è allora il motivo per cui dopo le acquisizioni degli ultimi anni, le multinazionali preferiscono andar via? Un’indagine condotta dalla Bocconi in collaborazione con il Politecnico di Milano sulle multinazionali presenti in Lombardia (quasi il 40 per cento ha almeno una sede in quella regione), mette a fuoco alcune cause. I nostri ingeneri, i chimici, i tecnici hanno competenze tra le più alte e costano di meno, flessibilità e creatività sono apprezzate nel mondo. La rete delle piccole e medie imprese fornitrici è tra le più attrezzate. Eppure emergono nel conto i vecchi svantaggi competitivi: un eccesso di burocrazia, con opacità delle norme e lunghezza delle procedure, frena gli investimenti. Ma c’è di più. Pesa l’arretratezza di alcune infrastrutture, a cominciare dalla rete stradale, che determina ritardi nel trasporto delle merci. E poi c’è il fisco: le multinazionali non si lamentano del carico, quanto piuttosto della volatilità delle decisioni in materia, l’incertezza legata alle tasse. Nonostante la criminalità organizzata sia considerata un forte deterrente, dalla ricerca non emergono valutazioni significative sulla criminalità economica, in primis sulla corruzione, che costa alla collettività 60 miliardi all’anno, ma che per le multinazionali rientra nel prezzo da pagare. Conclusione: tra le aziende intervistate nessuna farebbe nuovi investimenti in Italia. Ma nemmeno in Europa. Cina ed Est asiatico sono i nuovi poli di riferimento per una prossima espansione delle attività.“Il tema è come recuperiamo competitività senza comprimere i salari, già molto bassi – evidenzia Barba Navaretti –, stabilendo delle priorità, a partire dal rafforzamento del secondo livello contrattuale, per rilanciare l’efficienza della produzione nei territori, e dalla risoluzione dei problemi strutturali, a cominciare dal costo dell’energia”.
Il ruolo del governi. Ma cosa può fare un governo per invertire una tendenza o convincere imprese che possono permettersi di trattare alla pari, talmente ricche da concedersi il lusso di chiudere e mandare a casa migliaia di persone, senza batter ciglio? “Si può intervenire caso per caso – sottolinea Onida –, ma ha poco senso, perché poi i problemi strutturali rimangono”. Però è anche vero che qualche primo ministro sta facendo sentire la sua voce: “I governi stanno intervenendo, eccome – sostiene Luciano Gallino, professore emerito di Sociologia all’università di Torino –: in Europa e negli Stati Uniti stanno mettendo in campo tutto il loro peso, mentre il nostro ha poca credibilità per poter avere un potere contrattuale. Il problema è alla radice: dopo aver deregolamentato l’economia, oggi gli Stati hanno pochi strumenti a loro disposizione per frenare il capitale”. Senza contare che nel quadro d’abbandono delle multinazionali s’insericono anche le grandi imprese italiane, a partire dalla Fiat, che ha deciso di chiudere Termini Imerese. “È inutile pensare d’investire ancora sull’auto in Sicilia – conclude Gallino –. Le auto oggi non sono fabbricate negli stabilimenti da dove escono, che sono piuttosto degli impianti di assemblaggio, e lo stesso vale per la Fiat, che non ha mai pensato a creare un indotto in Sicilia”.