Qual è “lo stato di salute” dell'economia del nostro Paese? La tesi che essa viva da tempo un periodo di prolungata stagnazione è stata contestata sulla scorta di numerosi dati e indicatori statistici, riferiti soprattutto alle nostre imprese industriali esportatrici. L'idea di fondo è che l’andamento in valore delle esportazioni manifatturiere italiane fino allo scoppio della crisi in corso confermi, in particolare, la leadership dell’industria italiana nei mercati internazionali, che ha anche reagito alla crisi meglio degli altri paesi, Germania compresa. Le cose non potrebbero dunque andare meglio.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a una serie di scambi su questo argomento tra Marco Fortis e Tito Boeri e Carlo Scarpa. Il primo sostiene da tempo (con più vigore di tutti) che l’industria esportatrice italiana continui ad eccellere nel mercato internazionale, come dimostrerebbe l’indice costruito misurando il numero di prodotti in cui ciascun paese è primo, secondo o terzo esportatore mondiale (secondo la banca dati del commercio internazionale dell’ONU che considera più di 5.500 prodotti scambiati a livello globale). Questo indicatore ci dice che nel 2007 l’export italiano è stato realizzato per il 47% in oltre mille prodotti in cui l’Italia è nei primi tre posti al mondo tra i paesi esportatori. Il nostro paese risulta secondo solo alla Germania per primi, secondi e terzi posti, precedendo Francia e Corea del Sud. In termini assoluti, siamo i primi esportatori mondiali di 288 prodotti (100 miliardi di dollari); secondi in 382 prodotti (79 miliardi) e terzi in altri 352 prodotti (56 miliardi). Le mille “nicchie di eccellenza” valgono 235 miliardi di dollari, ai quali potremmo aggiungerne altri 87 relativi agli altri 737 prodotti rispetto ai quali figuriamo al quarto e quinto posto.
Il lettore è disorientato perché “inondato” da tutti questi numeri? E' proprio quello che sostengono Boeri e Scarpa. Essi contestano l’uso di dati parziali per giudicare l’andamento della nostra economia che andrebbe valutata invece sui dati aggregati. Mentre fino a poco tempo fa lo sport nazionale era quello di denigrare le statistiche ufficiali, ora la più “subdola” operazione è di confondere gli “uomini comuni” sullo stato della nostra economia attraverso l’inflazione statistica. Inondandoli con un elevato numero di indicatori parziali (spesso irrilevanti e/o fuorvianti), si impedisce loro di concentrare l’attenzione sugli unici indicatori importanti, ossia, le statistiche ufficiali prodotte dall’Istat che trasformano in indicatori aggregati tutti quegli indicatori parziali. A noi sembra che in realtà vadano avanti entrambe le operazioni: l’operazione di denigrazione dell’ufficio nazionale di statistica non è, purtroppo, ancora terminata. Ne siamo testimoni e, in qualche modo, involontaria causa.
Da tempo incentriamo la nostra attenzione sul problema dell’insoddisfacente andamento della produttività nel nostro Paese, sulle sue cause e sui possibili rimedi. Lo facciamo perché la produttività del lavoro, insieme al tasso di occupazione e alla quota popolazione in età da lavoro, determina il prodotto pro-capite. Parlare della dinamica della produttività significa dunque parlare della capacità di una economia di generare reddito futuro. E noi crediamo che questa capacità si sia da troppo tempo appannata per non correre immediatamente ai ripari. Una caduta del reddito pro-capite pari al 4,1% tra il 2000 e il 2009 non è fatto da sottovalutare, a meno di credere, ovviamente, agli indicatori parziali.
Tra le diverse cause che contribuiscono a questa sciagura del nostro sistema economico, abbiamo puntato il dito sulla bassa dinamica del rapporto capitale/lavoro e, più in particolare di quello tra capitale Ict (il capitale innovativo legato alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione) e lavoro. La nostra tesi è che il ritmo di crescita della produttività del lavoro si sia ridotto perché le nostre imprese hanno di molto rallentato la crescita del capitale per addetto, soprattutto di quello innovativo. I lettori di nelMerito.com già sanno che questo è vero per l’economia nel suo complesso, ma lo stesso vale per l’industria in senso stretto.
Ci occuperemo in un altro intervento del legame tra la dinamica del rapporto tra capitale (sia Ict che non Ict) e lavoro e andamento della produttività nell'industria. Per verificare quanto sia rilevante l'andamento del rapporto tra capitale innovativo e lavoro per la produttività, in questa sede basta una semplice considerazione. Nel periodo 1980-2008, nella manifattura la correlazione tra produttività e capitale non Ict è pari al 36.3% e quella tra produttività e capitale Ict al 47.3%; per l’economia nel suo complesso, i rispettivi valori sono 34.9% e 48.6%. Insomma, da questo punto di vista non esistono differenze sostanziali tra l’industria in senso stretto e il totale dell’economia
Nel suo commento al nostro più recente lavoro in cui sosteniamo questo punto di vista, contenuto nel libro l’Italia Possibile, da noi curato insieme a Maurizio Franzini e appena pubblicato dall’editore Brioschi, Giampaolo Galli organizza una difesa “a tutto campo” dell’industria italiana (e questo è apprezzabile e comprensibile, essendone un importante rappresentante). Galli individua un puzzle tra i dati aggregati e alcune indagini a livello di impresa (in particolare, l’indagine INVIND Banca d’Italia su circa 4500 imprese con almeno 20 addetti, di cui 2900 appartenenti all’industria in senso stretto). Da queste ultime si evince che una parte significativa delle imprese esposte alla concorrenza internazionale hanno risposto a globalizzazione, euro e rivoluzione tecnologica ristrutturandosi, sfruttando la tecnologia e rimanendo competitive nei mercati. Per generalizzare questa evidenza a tutta la manifattura, Galli mette in luce che la quota in valore delle nostre esportazioni (misurate rispetto ai principali paesi industriali) si è ripresa in questo decennio e che solo Germania e Spagna sono paragonabili a noi a tal riguardo. Certo, sarebbe utile ricordare cosa accade al contempo alle nostre importazioni e al saldo commerciale (in peggioramento), ma tant’è. Galli passa poi a ricordare che i valori medi unitari delle esportazioni sono molto alti e in crescita. Come potrebbero imprese poco produttive e competitive strappare prezzi crescenti? Perdendo quote di mercato, verrebbe da dire, ma non è questo che ci interessa discutere qui.
Galli non può però esimersi dal chiedersi come mai, se le imprese industriali hanno fatto così bene, produzione, produttività del lavoro e produttività totale dei fattori vanno complessivamente così male nel loro comparto produttivo. Come è possibile conciliare questa evidenza aggregata con l’efficienza delle imprese manifatturiere italiane che verrebbe dalle indagine micro? Come è possibile spiegare il peggioramento del nostro paese rispetto a quasi tutti gli altri?
La difesa dell’industria italiana richiede a questo punto di ricorrere al negazionismo. E’ utile citare testualmente: “malgrado gli sforzi fatti dall’Istat negli ultimi anni per migliorare le statistiche industriali, permangono problemi di misurazione (…) Le differenze fra paesi, nell’aggregato e per singoli settori, sono troppo grandi per non essere attribuite a differenze di metodo (…) qualcosa di molto significativo – e diverso fra paesi – avviene quando si calcolano i deflatori e si passa dai valori correnti ai valori costanti (…) le revisioni fatte sino a oggi nel calcolo del valore aggiunto a prezzi costanti non tengono conto dei miglioramenti di qualità”. Insomma, l’Istat sottostimerebbe il prodotto reale, e dunque la produttività, perché sottovaluterebbe i miglioramenti qualitativi dei nostri prodotti, cosa che non farebbero gli altri istituti nazionali di statistica. Perché accadrebbe questo? E’ utile continuare a citare testualmente: “In linea di principio le statistiche europee sono armonizzate. In realtà, molti aspetti, apparentemente di dettaglio, relativi al metodo di calcolo possono influenzare le misurazioni. Ad esempio, in alcuni paesi, fra cui l’Italia, il valore aggiunto reale è sostanzialmente ancorato all’indice della produzione industriale, che è una misura di volume; in altri, il calcolo viene fatto a partire dal fatturato, che è una misura di valore”.
Noi sapevamo che, da quando Eurostat adotta un sistema armonizzato dei conti, tutti quelli elaborati dall’Istat si basano sul Sistema Europeo dei Conti (SEC), modificato coerentemente con il nuovo sistema SNA 93, redatto dall’ONU e da altre istituzioni internazionali, tra cui Eurostat. Per questo non crediamo che gli indicatori dell’Istat debbano essere messi in discussione. Ma anche se tutto ciò che suggerisce Galli fosse vero, potrebbe questa distorsione statistica spiegare l’andamento relativo della produttività nel manifatturiero tra il 1995 e il 2007: Italia + 6,6%; Germania +45% ; Francia +51,3%? Quaranta punti percentuali di differenza dipendono tutti dalla capacità, solo italiana, di migliorare la qualità?
Non esiste dunque alcun puzzle. Da un lato, esistono imprese esportatrici che si sono ristrutturate e che mantengono posizioni di leadership nel made in Italy; dall’altro, esiste il “resto del mondo” che contribuisce a generare un valore medio assolutamente scoraggiante. E dato che ciò che rileva sono le potenzialità di crescita complessiva del paese, a noi interessano i valori medi e dunque gli indicatori aggregati. Usando una frase di moda in questo periodo, “noi stiamo con l’Istat”.
Al di là della battuta e dell’attestazione di fiducia, la questione della crescita della produttività complessiva della nostra economia è quanto mai rilevante anche per la delicata situazione che l’Italia deve fronteggiare sui mercati per finanziare il suo elevato debito pubblico. Lasciando da parte le questioni legate agli attacchi speculativi sull'euro, non bisogna dimenticare che i tassi di interesse richiesti dai creditori dipendono (anche) dalle capacità del debitore di produrre un sufficiente livello di risparmio, non solo nel presente anche in futuro. Il risparmio privato italiano è storicamente elevato e questo ci ha protetto, fino ad oggi, dai rischi che corrono altri Paesi in termini di più alti tassi di interesse da pagare agli investitori esteri. Per quanto tempo potremo però di godere di questa protezione, se la crescita della produttività, e quindi del reddito, continuerà a ristagnare?