Con il diradarsi delle nebbie della propaganda, i contorni della vicenda dell’Alitalia emergono più chiari. E la storia da raccontare alla fin fine è abbastanza semplice: lo Stato aveva una società in cui i conti non tornavano, l’ha sostituita con una nuova, più piccola, e l’ha ceduta a un gruppo di imprenditori privati di sua scelta. La nuova società nasce con la camicia: dalla vecchia non eredita né debiti, né conflitti, né concorrenti. Ha dei mini-gioielli tutti per sé (come i viaggi tra le due più importanti città italiane), e potrà gestire un piccolo business locale, nel grandissimo mare del trasporto aereo globale. Ciò rende possibile che nella nuova piccola società dei cieli italiani i conti tornino, alla fine, e gli imprenditori che hanno messo il loro obolo ne siano ripagati. Altrimenti, è possibile che essi siano ripagati in altri modi, dato che hanno molte altre occasioni di rapporti d’affari con il governo che li ha chiamati nel business. E’ più incerto il destino di quelli che nella ex Alitalia lavoravano - i cosiddetti esuberi che ogni giorno crescono sui giornali - ma è probabile che a chi resterà fuori saranno garantite fonti di sostentamento, anche se meno nobili del lavoro nella gloriosa compagnia di bandiera. Quanto a tutti gli altri – viaggiatori cittadini e contribuenti – il conto è più complicato, ma sicuramente davanti al numero finale il segno è negativo: come contribuenti dovranno ripianare i debiti della vecchia compagnia, come viaggiatori non avranno alcun vantaggio anzi potrebbero subire un aumento delle tariffe aeree, come cittadini hanno avuto difficoltà a capirci qualcosa.
Al netto delle polemiche air-france-sì-air-france-no, fuori dal derby Malpensa-Fiumicino, lontani dai tecnicismi sul modello hub o modello point-to-point, il succo della storia ci sembra questo. Del resto non è tra i criticoni della sinistra, ma nella stessa comunità finanziaria che circola riguardo all’Alitalia “la teoria dell’ossobuco”: ai creditori il buco, allo Stato l’osso, ai nuovi soci privati la carne. Ed è proprio di quelli che hanno preso la parte nutriente del piatto, e forse avranno anche il risotto, che conviene parlare: imprenditori, banchieri, immobiliaristi, finanzieri. Sono giunti piano piano, un po’ alla spicciolata, e pochi spiccioli hanno messo dell’impresa; inizialmente erano recalcitranti, poi via via più pimpanti e numerosi; alla fine, sull’impresa ha messo il cappello anche la loro massima rappresentante, la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, con una partecipazione simbolica alla nuova compagnia per testimoniare l’adesione ideale della classe imprenditoriale italiana al tentativo di salvataggio. Così, siamo legittimati dalla stessa Confindustria a vedere nella vicenda Alitalia, oltre che lo stato delle ex aziende di Stato, anche il modello di comportamento del capitalismo italiano: della razza padrona di una volta, adesso più spesso nota come razza furbona.
Per molti mesi Radio 24, la radio all-news che fa capo al gruppo del Sole 24 Ore – il cui editore è la Confindustria – ha chiuso ogni giorno il suo principale notiziario del mattino con una notizia: “anche oggi Alitalia ha perso un milione di euro”. Detto semplice semplice, come un dato di fatto, tra le previsioni del tempo e lo stato del traffico. Era un modo assai efficace per ricordare che il bubbone Alitalia era ancora lì, dopo anni e anni di mancate soluzioni, e soprattutto dopo quel che era successo in campagna elettorale: quando il vecchio management dell’Alitalia, sostenuto da una parte del vecchio governo, aveva quasi chiuso un accordo per la cessione della compagnia italiana all’Air France, e l’accordo è saltato per il “no” dei sindacati e dell’allora capo dell’opposizione Silvio Berlusconi. Il quale ha vinto le elezioni anche sulla questione Alitalia, e sulla difesa della sua italianità. Naturale dunque che dopo si sia prodigato con ogni mezzo per non perdere la faccia: senza badare a spese, anche perché nel caso i soldi in questione sono quelli pubblici, dunque nostri. Di qui la costruzione di un piano, maturato ufficialmente nella sede della seconda banca italiana, il gruppo Intesa-San Paolo, al quale potesse aderire un certo numero di imprenditori di qualsiasi ramo e specialità (mattoni, navi, autostrade, maglioni, acciaio, motorini), purché con passaporto italiano. Ma c’è un piccolo particolare, che faceva prevedere che la ricerca sarebbe stata ardua. Sulla vendita dell’Alitalia era stata aperta una gara pubblica, poi una serie di trattative private, e mai si era presentato un imprenditore italiano, con due sole eccezioni: il gruppo De Benedetti, che è comparso a un certo punto e poi è scappato via spaventato dalle condizioni economiche della società (le quali nei mesi si sono via via aggravate per colpa dell’andamento dei prezzi del petrolio), e il padrone di AirOne Carlo Toto, il quale è sì un imprenditore nel ramo degli aerei, ma di una compagnia piccolissima al confronto di Alitalia, e dunque sprovvista dei mezzi finanziari necessari (anzi ampiamente indebitata). Un’altra cordata spuntata nella lunga telenovela Alitalia, raccolta attorno a un ex presidente di Corte Costituzionale, è durata lo spazio di pochi giorni e raggruppava nomi di piccoli impresari non proprio famosi. Insomma, di imprenditori italiani fino all’arrivo di Berlusconi al governo non s’era vista l’ombra. Perché l’Alitalia, evidentemente, non era un buon affare.
Cosa è cambiato da allora? Lasciando da parte motivazioni politiche o altre spinte non misurabili, c’è un dato di fatto: quel che la cordata di imprenditori italianissimi compra non è l’Alitalia, ma la sua erede, una newco chiamata Cai, scorporata dalla bad company. Solo la ciccia, senza buco e senza osso. Nella bad company, cioè “cattiva compagnia”, resta quel che rendeva l’Alitalia un pessimo affare, appetibile solo per colossi dalle spalle molto molto larghe: i debiti, le obbligazioni contratte con i risparmiatori, per cominciare. Ma anche tutti i vincoli che, a detta dei manager, fanno sprofondare i conti della compagnia: a cominciare da regole e contratti di lavoro. La nuovissima e leggera Cai non solo non avrà debiti pregressi, ma partirà con qualche migliaio di lavoratori in meno: 3.600 da licenziare (esuberi, di cui in un modo o nell’altro si farà carico lo Stato) più tutti i contratti a tempo determinato da non rinnovare (esuberi nascosti, di cui non si farà carico nessuno). Non solo: a suo vantaggio sono “temporaneamente sospese” le norme antitrust.
Gli imprenditori entrati nell’affare dunque si trovano non solo a correre con una macchina tutta nuova e scattante; ma è stata anche spostata in avanti, a loro esclusivo beneficio, la linea di partenza. La gara è truccata: e notarlo non vuol dire essere ideologi del mercato, ma semplicemente constatare un dato di fatto. La presidente di Confindustria, che simbolicamente aderisce a questo piano, ha in passato sempre simbolicamente aderito a un’altra visione del mercato, nella quale le regole a presidio della concorrenza erano sacre e inviolabili. Evidentemente ha cambiato idea. Per chi invece non abbia una concezione sacrale del mercato e lo consideri un’istituzione come tante altre, mentre attribuisce maggior valore all’interesse pubblico e alla tutela del bene comune, toccherà porsi una domanda in più: a quale interesse superiore corrisponde la temporanea sospensione del mercato nel caso Alitalia? La salvaguardia dei posti di lavoro? No, perché nella soluzione “di mercato”, quella proposta da Air France, si perdevano molti meno posti di lavoro. La tutela dell’italianità? Ammesso e non concesso che sia un grande valore – nel qual caso dovremmo fare una cordata per riprenderci i supermercati, la chimica, l’elettronica e quant’altro -, nessuno garantisce che entro pochi anni (se non mesi) nella nuova Cai non subentri un grosso partner internazionale. Anzi, secondo i più sarebbe l’unica strada per riprendere una prospettiva di sviluppo.
Eh già, perché nonostante tutti gli aiuti messi in piedi dal governo, non è detto che la Cai sia un grande affare: troppo piccola e limitata nella grande guerra globale dei cieli, troppo vago il profilo dei nuovi manager (da quale grande esperienza in fatto di aerei vengono?), troppo basso il loro investimento. Il che non vuol dire che i singoli neosoci della newco rischino qualcosa. Le loro contropartite le hanno già avute o stanno per averle, e sono fuori dal tavolo da gioco dell’Alitalia. I concessionari delle Autostrade – membri della cordata – hanno “vinto” l’adeguamento delle tariffe all’inflazione (pagheremo più esosi pedaggi autostradali); i costruttori e gli immobiliaristi, secondo un informato articolo di Alberto Statera su La Repubblica, hanno ottenuto fiches al tavolo di Milano Expo; altri mezzi di informazione parlano di altre regali sparsi, un permesso di edificare qua, un cambiamento di regole là. Insomma, piccoli e grandi favori che passano nella zona grigia del rapporto tra politica ed economia, con singoli imprenditori singolarmente contattati (o autocandidati) e scelti alla corte del principe. Pronti a partecipare, in nome dell’interesse patriottico al salvataggio dell’Alitalia. Ma pronti a difendere il loro business, perché “gli imprenditori non sono donatori di sangue”, è stato detto, scritto e ripetuto dalle loro parti. No, non sono donatori di sangue. Preferiscono riceverne.