“Il tenore di vita del cittadino del Nord vale 26.714 euro, quello del cittadino del Sud 30.138, circa il 13% in più. Conclusione: il divario c’è, ma è a favore del Sud.”
“In verità, è il Sud ad apparire in ‘gabbia’: luogo di cattività, di energie incatenate, di vincoli sociali e familiari che soffocano i destini individuali.”
Queste due frasi, che potrebbero essere pronunciate in un contraddittorio, sono in realtà tratte da due libri recenti. La prima si trova a p. 143 del volume di Luca Ricolfi, “Il sacco del nord” (Guerini e associati); la seconda a p. 16 di quello di Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano “Ma il cielo è sempre più su?” (Castelvecchi).
I due libri meritano di essere letti perché contengono tesi “forti” costruite sull’analisi dei dati; perché coprono un ampio spettro di temi rilevanti per discutere del Mezzogiorno anche come problema nazionale; perché offrono articolate raccomandazioni di policy; infine, perché entrambi considerano le proprie analisi coerenti con solidi principi di giustizia, naturalmente diversi nei due casi. Soprattutto, è utile leggerli assieme per individuare le ragioni di tante loro diversità.
In queste brevi note cercherò di rispondere a un sola domanda: da cosa dipende l’opposta valutazione sulle condizioni di vita nel Mezzogiorno, rivelata dalle frasi sopra riportate? Si spiega con i dati o con il modo di sceglierli e di rappresentarli?
Il “divario rovesciato” è centrale per la tesi di Ricolfi secondo cui da qualche tempo è in corso un “sacco del Nord”, con violazione della “giustizia territoriale” enfatizzata nel libro e presente già nel sottotitolo.
Ricolfi include tre elementi nel tenore di vita: il potere d’acquisto del reddito (nel computo del quale tiene conto delle differenze territoriali nei prezzi), i consumi pubblici (il cui valore risente anche degli sprechi) e il tempo libero (al quale assegna un valore identico per il Nord e per il Sud).
Quest’ultimo, che certamente incide sul tenore di vita, è il vero responsabile del “divario rovesciato”: secondo Ricolfi, la sua maggiore diffusione al Sud assicura un vantaggio pari a 7000 euro pro capite all’anno, più che sufficiente a compensare gli svantaggi del Mezzogiorno rispetto al reddito e ai consumi pubblici.
Non intendo discutere se siano accettabili i valori assegnati da Ricolfi alle tre componenti del tenore di vita. Vorrei, invece, sottolineare il modo in cui egli presenta i suoi dati. Ci viene offerta una media, anzi una “super media” in cui confluiscono diverse variabili, ciascuna con la propria distribuzione, che ha il compito di rappresentare il “tenore di vita di un territorio”. Nutro molti dubbi sull’utilità di questo concetto e sulla sua capacità di aiutarci a comprendere i fenomeni che abbiamo di fronte. Un modo diverso di presentare gli stessi dati potrebbe forse essere questo: “Nel Mezzogiorno vi sono molti più disoccupati che nel resto del Paese. Dunque è più elevato il numero di persone che, spesso contro la loro volontà, dispongono di molto tempo libero. Se dessimo un valore economico a quest’ultimo senza preoccuparci di come è distribuito e, soprattutto, di come si combina con il reddito potremmo dire che il tenore di vita in questa area è maggiore di quello del Nord”. Se non mi è sfuggito qualcosa del modo di procedere di Ricolfi, a me pare che questa formulazione, sicuramente meno “dirompente”, rappresenti altrettanto bene, non vorrei dire meglio, i suoi risultati. Il messaggio del libro finirebbe però con l’essere piuttosto diverso.
Bianchi e Provenzano avviano la loro analisi con un approccio opposto a quello delle “super medie”. La loro chiave di lettura è generazionale, il fuoco dell’attenzione è sui giovani meridionali e sul loro disagio. In particolare si sottolinea come essi, in contrasto con le attese, traggano ben scarso vantaggio dal crescente investimento in capitale umano. Il basso rendimento dell’istruzione è una delle cause, certamente la più nuova, della ripresa dei flussi migratori verso il Nord e verso l’estero, che Bianchi e Provenzano documentano benissimo in uno dei loro migliori capitoli.
Partendo da questi dati, i due autori sollevano diversi quesiti che potrebbero essere di rilievo anche per la tesi del “sacco del nord”: come si contabilizzano nel dare-avere territoriale i costi del capitale umano accumulato al Sud e utilizzato al Nord? E i costi dell’emigrazione come tale? Non risponde forse a criteri di “giustizia” anche il provvedere alla creazione di condizioni che permettano ai giovani meridionali di vivere una vita decente nei territori dove sono nati, ammesso che lo vogliano? Sono interrogativi cruciali, che devo lasciare qui.
A Bianchi e Provenzano si potrà obiettare che i giovani emigrano anche dal Nord e che, dunque, si tratta di un problema del Paese, non circoscritto al solo Mezzogiorno. Essi, però, ci aiutano a capire che per i giovani meridionali troppo spesso l’emigrazione non costituisce una vera scelta, perché l’insieme delle opportunità “vicino casa” è, per loro, quasi vuoto. In una delle (molte) frasi forti del libro si legge “C’è una forma di eroismo in chi rimane, scambiato troppo spesso per inedia o accomodamento da chi fugge” (p. 194).
Trasformare questo malessere in “valore del tempo libero” e permettere a una “super media” di occultarlo forse non aiuta a comprendere la realtà del Mezzogiorno. L’approccio delle “super medie” sembra dirci molto meno di una lettura per segmenti, come quella che apre il libro di Bianchi e Provenzano.
Questa chiave di lettura, però, non viene adeguatamente sviluppata e mano a mano che il libro procede, la parte sembra trasformarsi nel tutto, il malessere di molti giovani diventa quello dell’intero Mezzogiorno. Di quest’ultimo, al termine di una lettura per molti versi appagante, si ha un’immagine omogenea, peraltro non costruita sulle medie. I suoi segmenti e la sua varietà restano opachi, sullo sfondo.
In realtà, Bianchi e Provenzano menzionano, anche se da una prospettiva leggermente diversa, il problema che pone la “varietà nell’unità”; lo fanno quando si chiedono perché il “Mezzogiorno” sia singolare allorché si tratta di sottolinearne gli aspetti negativi e plurale (i “Mezzogiorni”) quando si parla di quelli positivi. La questione non viene però da loro debitamente approfondita e resta la sensazione che la chiave di lettura generazionale non abbia permesso di rappresentare adeguatamente la varietà perché, alla fine, il Mezzogiorno è soltanto quello che appare a molti giovani. Sul tema della varietà nell’unità si è di recente soffermata la rivista Meridiana, alla quale mi permetto di rinviare, riesaminando la tesi dei “molti Mezzogiorni” formulata molti anni fa dai suoi fondatori1.
Dunque, possiamo forse rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti. Il Mezzogiorno di Ricolfi è una “super media” presentata in un modo non del tutto neutrale; il Mezzogiorno di Bianchi e Provenzano è quello che vedono i giovani senza opportunità, un Mezzogiorno sul quale bene hanno fatto a insistere ma che non è l’unico.
Il punto di partenza per una rappresentazione più soddisfacente potrebbe forse essere un dato spesso trascurato: l’altissima disuguaglianza economica (e non soltanto) interna alle regioni del Mezzogiorno.
Il problema non sfugge a Ricolfi che, però, si limita a menzionarlo, forse per l’impatto distruttivo che avrebbe sulle “super medie”. In verità, con un giudizio affrettato rispetto alla cura profusa nel costruire i dati necessari alla tesi del “divario rovesciato”, egli afferma che il problema delle disuguaglianze nelle regioni del Mezzogiorno e quello dell’inefficiente offerta di servizi pubblici, “non originano dall’esterno ma hanno radici profonde dentro la società meridionale e i suoi meccanismi di riproduzione” (p. 135). Si tratta di un’affermazione che appare funzionale alla tesi del “sacco del Nord”. In verità, si potrebbe pensare che nel Mezzogiorno operano in modo più marcato che nel resto del paese, come cause di disuguaglianza, alcune scelte politiche nazionali, quali quelle che hanno modificato le istituzioni del mercato del lavoro.
Dare adeguato rilievo alle disuguaglianze può consentire di sottrarsi al rischio di forzare il Mezzogiorno entro un’immagine omogenea, quale che essa sia. E può anche essere un modo per aprire nuove prospettive alle politiche. Le risorse per gli svantaggiati del Sud (non per dare corso a trasferimenti quanto per ampliare le loro opportunità di inclusione) potrebbero provenire, anche soltanto in parte, dai “privilegiati” del Sud che i dati sulla disuguaglianza ci dicono essere piuttosto numerosi. Ma questo non vuol dire sollevare lo Stato dalle sue responsabilità: i progetti diretti ad ampliare le opportunità dei giovani, su cui giustamente insistono Bianchi e Provenzano, richiedono il suo intervento, non solo e non tanto per fornire risorse finanziarie.
L’attenzione alle diversità e alla varietà può quindi indicare nuove strade e aprire nuove prospettive anche alle politiche. Ma non si tratta di un compito facile. Una difficoltà, tra le altre, consiste forse nella convinzione che rappresentare il Mezzogiorno come una realtà omogenea di benessere o di malessere è indispensabile per indebolirne oppure per rafforzarne la capacità di ottenere l’aiuto del Paese. Non so se gli autori dei due libri nutrano una convinzione di questo tipo. L’impressione è, però, che liberarsi di queste eventuali preoccupazioni potrebbe essere molto utile a una più completa rappresentazione del Mezzogiorno e forse anche ai suoi segmenti più deboli.