Nadia Urbinati, dopo avere ricordato che la crisi ha allargato le distanze tra ricchi e poveri si interroga sul rapporto tra democrazia e disuguaglianza. Urbinati sostiene che con la creazione della classe media è stato neutralizzato il pericolo che i poveri si ribellassero alla democrazia e avanza la tesi che oggi a minacciare, in modi diversi, l’ordine democratico potrebbero essere proprio i ricchi. Si darebbe, così, il caso che la democrazia debba preoccuparsi proprio di coloro ai quali assicura più vantaggi, che per questo possono essere considerati suoi subdoli amici.
In questi anni di infinita crisi economica non è passato inosservato agli studiosi più accorti il fatto che la crisi non è crisi per tutti e che, più che di una diminuzione della ricchezza, si dovrebbe parlare di una sua radicale redistribuzione, un processo che è del resto sempre in corso nella società capitalistica, benché con ritmi e velocità diversi. Negli ultimi anni, la corsa verso una redistribuzione sempre più diseguale della ricchezza ha avuto nei paesi a democrazia consolidata una formidabile accelerazione, con accumuli sproporzionati fra pochissimi e una restrizione altrettanto sproporzionata per tutti gli altri, e soprattutto per coloro che già erano ai livelli più bassi della scala sociale. Questa crisi ha aumentato la diseguaglianza con l’esito che molti di più sono ora i poveri che poveri resteranno per lungo tempo. Ha falcidiato più velocemente di prima i redditi e la ricchezza (già limitati) dei meno abbienti. Questo è avvenuto insieme all’erosione delle risorse pubbliche destinate a programmi e servizi sociali, cosa che ha aggravato il livello di bisogno e perfino di indigenza. Crisi economica e declino dello stato sociale si sono dunque sommati e hanno prodotto effetti dirompenti in termini di diseguaglianza e di povertà assoluta. La parola crisi è, pertanto, troppo generica se non coniugata insieme a due domande: ‘crisi per chi?’; ‘impoverimento di quanti’?
Definire e contare il numero dei poveri e il ritmo di impoverimento è un inizio di risposta, non ancora una risposta esaustiva poiché, come ci ha insegnato Amartya Sen, la povertà deve essere studiata sempre in relazione al contesto nel quale le persone vivono concretamente per cui l’analisi sulla povertà, vecchia e nuova, e sull’impoverimento e la sua velocità e intensità non deve mai essere dissociata dall’analisi della ricchezza, vecchia e nuova, e delle forme, intensità e dimensione dell’arricchimento. Eppure, individuare, studiare e analizzare la ragione del successo dei ricchi è tutt’altro che facile. In effetti, mentre dei poveri si sa tutto, dei ricchi e super ricchi (soprattutto quando si tratta di ricchezza per reddito) si sa poco o nulla, come spiegano Franzini, Granaglia e Raitano nel loro libro Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?
Dei poveri si sa tanto presumibilmente perché si teme la loro potenziale reazione, la ribellione. E’ una storia antica quanto la democrazia, il governo che Aristotele denominò “dei poveri”, di quelli che possono usare il potere del numero (maggiore) per passare leggi punitive verso i ricchi (meno numerosi). I poveri hanno sempre fatto paura. L’economia di mercato che si regge sul lavoro salariato è riuscita a domare questa paura, e ancora prima a superare l’antico dualismo poveri/ricchi, mediante la formazione di una larga classe media, di gente né troppo ricca né troppo povera che è diventata il caposaldo della stabilità politica. In questo modo sono stati neutralizzati i poveri: riducendoli in numero, in modo da non farli essere più la spina dorsale della democrazia. E i ricchi?
Una volta che i poveri sono diventati pochi in numero e comunque non la maggioranza come in antichità, anche i ricchi sembrano essere diventati innocui per la stabilità sociale. Nella democrazia moderna pare dunque che di essi non ci si debba preoccupare, che non ci sia nulla da dire in quanto i ricchi sono una forza di stabilità, perché hanno tutto l’interesse a conservare l’ordine nel quale avviene il loro arricchimento. Sembra dunque che i ricchi siano, non meno del ceto medio, i naturali amici della democrazia, una forza di stabilità e di sostegno. E poiché si studia in genere ciò che è o può essere ragione di crisi, di problema, di instabilità, sembrerebbe ovvio non doversi occupare dei ricchi. Ma allora, perché i democratici, da che esistono, si sono sempre molto preoccupati dei ricchi e veramente ricchi? Certo, non per equalizzare le fortune (democrazia non è la stessa cosa di socialismo) ma per evitare che la condizione economica sia una ragione per distribuire ed esercitare il potere politico.
Le democrazie sono regimi politici fondati sull’eguaglianza di potere politico e l’eguaglianza per legge. Ciò a cui aspirano è di tenere la diseguaglianza economica fuori dal potere politico. Questa ambizione è davvero molto difficile da soddisfare. Si è anzi dimostrata più difficile mano a mano che la democrazia si stabilizza. La democrazia degli inizi è forse più ‘pura’ ma progressivamente si intorbidisce. Strana storia, che merita qualche parola anche per dar conto di un paradosso che ci fa capire quanto sia urgente preoccuparsi dei ricchi, contrariamente alla vulgata secondo la quale essi sarebbero appunto i migliori difensori del sistema che consente il loro arricchimento. Il problema dei ricchi è la pleonessia per cui non vi è mai limite a quanto essi possono fare per avere più ricchezza.