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Una volta tanto, possiamo credere sulla parola a Sergio Marchionne, quando dice che la totale acquisizione della proprietà della Chrysler segna un passo in avanti decisivo verso la globalizzazione del gruppo Fiat-Chrysler, di cui egli è il dominus assoluto. Con quasi 4,5 milioni di auto e veicoli commerciali venduti nel mondo, il gruppo si colloca al settimo posto nella graduatoria delle grandi imprese automobilistiche.

Così, sorprendentemente, la Fiat in crisi in Europa e la Chrysler che era in stato di fallimento negli USA, diventano, mettendosi insieme, un’impresa automobilistica globalizzata. Sarebbe un miracolo, se non avesse una precisa spiegazione nella scelta di Barack Obama di salvare l’industria dell’auto americana avviata alla dissoluzione dopo la bancarotta di General Motors e appunto di Chrysler. Una chiara e istruttiva controprova della stupidità dei governi italiani, che si sono susseguiti nel corso della crisi, prigionieri dell’ideologia che impone allo Stato di disinteressarsi del destino industriale del paese – salvo occuparsene per annunciare la privatizzazione di quel poco che rimane delle grandi imprese industriali e dei servizi.

 

Fin qui tutto bene per il disegno spregiudicatamente ambizioso di Marchionne. Ha salvato con i soldi dell’amministrazione americana la Chrysler e, alla fine, ha conquistato il pieno controllo del gruppo che per le sue dimensioni intercontinentali può agevolmente definirsi a carattere globale. Ma l’equivoco sta proprio nel senso che gli entusiastici commentatori italiani attribuiscono al concetto di “globale”. Tutte le grandi imprese che dominano il mercato dell’auto hanno assunto una dimensione globale dal punto di vista dell’articolazione della produzione e della vendita.

La Toyota, la Volkswagen, la General Motors e la Ford sono le imprese globalizzate per eccellenza da prima ancora che si diffondesse il concetto corrente di globalizzazione. Ma globali non significa apolidi. Ognuna di esse ha un chiaro e inequivocabile riferimento nazionale. Le prime quattro che abbiamo citato hanno il loro centro di rifermento, la loro testa, rispettivamente in Giappone, in Germania e negli Stati Uniti. Le loro fabbriche sono sparse nei diversi continenti così come lo sono i loro mercati. Ma vi è un paese di riferimento dove si colloca il centro di comando – un centro che è in un rapporto di reciproca interferenza con i governi, la finanza, i sindacati, le comunità dei paesi nei quali opera.

Il salvataggio operato da Obama delle due grandi di Detroit è l’esempio più vicino ed eclatante ma non l’unico del rapporto fra grande impresa automobilistica e governo in uno specifico paese, indipendentemente dalla dimensione globale dell’impresa. Ce ne siamo dimenticati, ma a metà degli anni ’90, la Volkswagen, che ora gareggia per essere numero uno al mondo, fu salvata da Schröder, allora governatore della Bassa Sassonia, dove è Woflsburg, il suo principale centro di produzione. E nel 2011, Sarkozy è intervenuto sul gruppo Peugeot Citroën per scongiurarne la crisi occupazionale.

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