Comuni più tranquilli, regioni preoccupate, province in allarme… Mentre gli attori italiani si agitano attorno al rito del def – il documento di economia e finanza, che traccia gli obiettivi della finanza pubblica per i prossimi tre anni –, dalla lettura del documento, tabella dopo tabella, emerge il volto del protagonista.
Che non vive a Roma, nei centri del potere che dovranno trovare dieci miliardi di risparmi della spesa pubblica nell’edizione Gutgeld della spending review (la quarta, dopo quelle di Enrico Bondi, Mario Canzio e Carlo Cottarelli); né nelle periferie italiane, tra quelle amministrazioni che dovranno spartirsi i nuovi consistenti tagli e i nuovi investimenti, più o meno legati a eventi grandi e piccoli; ma a Francoforte, nella sede della Banca centrale europea.
È al fattore D, inteso come Mario Draghi, che si devono le due voci del def più sicure e rosee: la riduzione della spesa per interessi sul debito pubblico, che da sola vale, e solo per il 2015, 6,4 miliardi; e la ripresa, ancora piccola ma evidente, delle esportazioni, legata alla svalutazione dell’euro.
A questo si aggiunge l’effetto di un piccolo deficit spending, nell’ambito della poca flessibilità concessa dall’Unione europea nei rapporti tra deficit e pil: 6,5 miliardi in tre anni.
Ne viene fuori un piccolo gruzzolo, un tesoretto secondo l’espressione che da qualche anno è in voga quando si parla di finanza pubblica: grazie al quale Renzi può vantarsi di presentare una manovra “senza tasse e senza tagli”. Slogan efficace, ma pericoloso, se genera in chi ascolta una domanda conseguente: ma a che serve, una manovra senza tasse e senza tagli? Che la fate a fare?
In realtà il def non è una manovra, ma una cornice. Dice cosa il governo prevede che succederà, e cosa vuol far succedere. Alle politiche vere e proprie, che daranno i dettagli del quadro, provvederanno poi leggi specifiche, in particolare quella di stabilità.
Per quel che se ne sa ora, la cornice di questo def dice alcune cose. Che la ripresa economica ci sarà, deboluccia (più 0,7 per cento quest’anno, 1,4 nel 2016 e 1,5 nel 2017). Che il rapporto tra deficit e pil scenderà ma non troppo (2,6 per cento quest’anno, 1,8 nel 2016, 0,8 nel 2017). Che il rapporto tra debito pubblico e pil passerà dal picco di quest’anno (132,5) a 127,4 nel 2017. Che le tasse resteranno sul 43 per cento del pil (anzi, con un piccolo aumento della pressione fiscale nel 2016, al 44,1).