Che cosa fa di un politico un “buon politico”? Prescindiamo un momento dal merito delle sue idee, dei suoi valori, della sua visione del mondo: che cosa lo rende meritevole da un punto di vista squisitamente “tecnico”?
Doti personali di onestà, buona fede, passione? Capacità amministrativa e di governo? Conoscenza delle procedure, delle tattiche e finanche dei segreti che presiedono alle complesse dinamiche delle assemblee rappresentative e degli organi istituzionali nei quali lui e la sua “parte” si trovano ad operare? Solide basi culturali multidisciplinari, che attingano a diversi background (di tipo umanistico, scientifico, giuridico-economico)? Esperienza nel mondo del lavoro e sensibilità ai suoi problemi, alle sue condizioni di vita “reale”?
È difficile rispondere in modo chiaro e sintetico ad un interrogativo dai confini così labili e sfuggenti, non essendo – fa l'altro – preliminarmente definito il ruolo esatto che questa figura di “politico ideale” dovrebbe rivestire, né il contesto in cui dovrebbe essere calata.
È meno difficile registrare come “di fatto”, implicitamente, sembra rispondere la gran parte dei cittadini-elettori. Lo possiamo osservare al momento del voto, ma anche attraverso quegli strumenti di “voto simulato” che sono i sondaggi d'opinione.
Nelle società contemporanee la dote che appare sopravanzare tutte le altre è la capacità comunicativa. I politici popolari sono quelli che riescono ad associare al proprio volto un gradimento fondato in primo luogo (anche se non in modo esclusivo) su un qualche “collegamento emotivo” con i propri elettori, il proprio “pubblico”. Sono i politici che riescono a emozionare, commuovere, indignare, suscitare speranza o paura, ma anche – a seconda del profilo politico del soggetto, della situazione storica, della volontà di veicolare attraverso uno stile anche un determinato contenuto – a rassicurare, tranquillizzare, trasmettere un senso di ordine, controllo, continuità.
La cosa non deve sorprendere, né scandalizzare. I regimi democratici sono fondati sul consenso. È dal consenso che traggono la loro primaria fonte di legittimità. La “mobilitazione emotiva” non è certo estranea ai regimi autoritari, ma questi ultimi non sarebbero tali se non si affiancassero ad essa anche gli “argomenti della forza”. E del resto il consenso non passa solo attraverso la pura condivisone di elementi perfettamente razionali.
A sinistra, per lungo tempo, è stata diffusa una comprensibile diffidenza verso la dote comunicativa. La si è spesso guardata come un'abilità da imbonitori o da ciarlatani, se non addirittura da aspiranti autocrati. A chi si pretendeva erede della cultura illuminista l'utilizzo di metodi “extra-razionali” appariva un sotterfugio tinto di immoralità. L'abusatissima citazione di Gramsci sulla necessità di una «connessione sentimentale» con il proprio popolo è spesso servita a far balenare l'esistenza di un problema al riparo dell'autorità di un “venerato maestro”. Senza che però il problema venisse mai davvero affrontato.