Il prossimo parlamento sarà con tutta probabilità quello con la più alta presenza femminile della storia della Repubblica. La percentuale di donne potrebbe salire dall'attuale 20,3 al 31%. A questo risultato – va detto – non contribuiranno in maniera eguale tutti i partiti (qui ci sono le stime su quante donne saranno presumibilmente elette, partito per partito); ma si tratterà comunque di un bel passo in avanti, compiuto sulla spinta di una mobilitazione femminile e di una nuova pervasiva sensibilità sul tema della democrazia paritaria. Ma cosa faranno queste donne e i loro colleghi, nella XVII legislatura? E cosa faranno il nuovo parlamento – un po' meno squilibrato nella rappresentanza – e il nuovo governo per affrontare lo Squilibro n. 1, quello che colloca il tasso di occupazione femminile in Italia più di 12 punti percentuali al di sotto della media Europea?1
Questi temi sono entrati finalmente anche nella campagna elettorale italiana. Certo non si può dire che, come quella che ha portato alla rielezione di Obama, sia stata “una battaglia sulle donne”. Ma almeno stavolta si è parlato (anche) di lavoro, salario e welfare delle donne. La necessità di aumentare l'occupazione femminile è – con differenze di enfasi – sostenuta da tutti, così come tutti vogliono la ripresa e la crescita. Ma: quale occupazione, con quali strumenti, per quale crescita? Su queste domande a inGenere ci esercitiamo da tempo e pensiamo debbano avere risposte precise, in assenza delle quali l'evocazione della questione femminile rischia di restare una categoria tra le altre, una voce da aggiungere all'elenco dei problemi. Non ci si può limitare ad inserire degli incentivi per assicurare alle donne una maggior fetta di lavoro in una futura ripresa che arriverà dal cielo; ma di avviare un new deal basato sulla domanda e sull'offerta di lavoro delle donne, a beneficio di tutti. Un pink new deal, l'abbiamo chiamato qualche tempo fa. Il che ci porta a fare alcune osservazioni critiche sulle proposte che circolano, e ad avanzarne di nostre.
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