Fra pochi giorni avrà inizio l'anno accademico qui negli Stati uniti. Sulle mura della mia università – la Columbia, di New York – come su quelle di tanti altri atenei statunitensi compariranno immagini di coppie felici con bimbi in braccio. Sorridenti, si rivolgono alle iscritte delle varie facoltà: offrono somme cospicue - normalmente attorno agli 8.000 dollari - in cambio di ovociti “donati.” Si capisce perché le studentesse sono diventate il target delle banche di ovuli: il «pool» degli atenei equivale alla famosa banca dello sperma dei premi Nobel. Le donne Nobel sono poche; inoltre, sono attempate: i loro ovuli scarseggiano e se esistono sono vecchiotti. Le laureande di Columbia o Harvard, invece ... giovani, energiche, destinate a grandi carriere, non solo sono fertili ma dispongono di geni che promettono bene.
E' facile che le studentesse, oberate di debiti come spesso sono, trovino l'offerta allettante. Un anno in una facoltà di legge o medicina di una grande università privata costa attorno ai 50.000 dollari. La crisi economica non ha aiutato chi studia e anche chi è riuscita a evitare debiti (grazie sopratutto a ingenti aiuti familiari) a un certo punto si chiederà se non sia il caso di coprire quantomeno una parte delle proprie spese. Del resto, sembra tutto così facile: «donare» l'ovulo evoca «donare» lo sperma, di primo acchito potrebbero sembrare richiedere sforzi (e comportare rischi) analoghi benché sia assai più difficile separarsi dall'uno anziché dall'altro.
Oltretutto, la proposta è moralmente gratificante: sollecita proprio quell'orientamento al prendere cura che caratterizzerebbe le donne. Più di vent'anni fa, Carol Gilligan ha messo in evidenza come l'etica femminile si basa sulla cura degli altri (a differenza di quella maschile, che sarebbe orientata all'autonomia) e la lezione è stata capita al volo dalle banche di ovuli. «Non vuoi aiutare un'altra donna?» chiedono i loro volantini. Chi non si sentirebbe in colpa rifiutando? Il compenso – e con esso il sapore di compravendita – sparisce, tramutato magicamente in dono dall'opera di bene. Così alla femminilità si risparmia il confronto con la propria commercializzazione.
Sia chiaro: la donazione di ovuli può costituire un atto di solidarietà, dando soddisfazioni enormi sia a chi lo compie sia a chi ne è beneficiario. Così pure la maternità surrogata può realizzarsi all'insegna della gratuità e dell'amicizia. Ma in realtà il più delle volte si iscrive in un crescente commercio che ormai coinvolge «star» come Sarah Jessica Parker e gente normale, clienti che rimangono «in loco» ed altri che cercano migliori tariffe o maggiore agevolezza burocratica oltrepassando le frontiere. Vi sono paesi «esportatori» e «importatori» di servizi legati a questo commercio. Alcuni lo hanno legalizzato; altri lo hanno proibito. Casi giuridici, dall'Australia all'Italia passando per l'Uzbekistan e Taiwan, dimostrano che è diventato impossibile non farvi i conti – non solo a livello nazionale, ma anche sul piano internazionale.
Infatti, l'ovocita che le studentesse della Columbia sono sollecitate a donare non è un bambino: ci vogliono altri passaggi, ed altri contribuenti, per trasformare l'ovulo in neonato. Per chi vuole un figlio fatto su commissione, dopo avere procurato sperma e ovocita e provveduto alla fertilizzazione, occorre individuare chi potrà fungere da incubatrice. La tecnologia permette infatti lo sdoppiamento della maternità fisica in due momenti separati: la fornitura di «materiale genetico» (ovvero la messa a disposizione di ovociti) e la gestazione. Ciascuno di essi può essere affidato a una donna distinta. Nella maternità surrogata tradizionale, una sola donna svolge entrambe queste funzioni. Ma quando le funzioni si cumulano, pare vi sia una maggiore propensione delle gestanti ad attaccarsi al nascituro, generando più conflitti nella consegna del bambino da parte della partoriente ai genitori committenti. Insomma, una donna che fornisce sia ovulo che utero sembra più facilmente identificarsi come madre del nascituro (chissà perché!); perciò i legislatori disposti a legittimare la riproduzione surrogata spesso optano per politiche che privilegiano la «gestational surrogacy.» (Noto per inciso che lo sdoppiamento delle funzioni che si realizza nella «gestational surrogacy» allarga notevolmente l'offerta di merci e servizi– ovociti comperati a New York, per esempio, utero localizzato a Nuova Delhii, provetta ... a Roma? Ma di questo parleremo fra un momento).
E' ovvio che la soluzione «migliore» al dilemma dell'attaccamento materno sarebbe una buona macchina per partorire. Ma fin qui non siamo ancora arrivati. Disponiamo, invece, di donne pronte a prestare il loro utero per il numero di mesi richiesto – quelle che la stampa ama chiamare le «pance in affitto.» Recentemente mi è passato fra le mani un contratto-tipo, in cui la fornitrice d'utero compariva come la «portatrice d'embrione». Nove mesi nel grembo? Non chiamarla «madre»! E' una portatrice d'embrione! Ricorda i facchini d'un tempo: lei porta l'embrione come loro portavano le borse
Purtroppo, l'analogia è più appropriata di quanto non si possa pensare. Vi è frequentemente una differenza di censo oltreché di colore e di collocazione geografica fra quelli ai quali l'embrione è portato e colei che lo porta. L'India, per esempio, ha aggiunto i servizi di riproduzione surrogata alla sua tradizionale industria del turismo sanitario. Dall'America o dal Giappone non ci si va più soltanto per curarsi i denti ma anche per acquistare un bambino fatto su misura. Ora che i mercati hanno capito che i bambini somigliano ai fornitori del loro materiale genetico e non a chi gli ha incubati - donne «scure» possono portare bambini «chiari», basta procurarsi ovulo e sperma adatti all'esito desiderato - le compagnie aeree possono contare su una nuova clientela
La via internazionale della riproduzione su committenza è tuttavia piena di intoppi, spesso legati all'incompatibilità di ordinamenti giuridici. A maggio di quest'anno, gemelli prodotti su misura in India per una coppia tedesca hanno finalmente preso la via di «casa», intendendo per questa la casa dei genitori committenti: avevano già festeggiato il secondo compleanno. La Germania – che vieta tassativamente la maternità surrogata - si e' rifiutata di riconoscere i gemelli come figli della coppia tedesca. Di fronte a questo diniego, il padre dei gemelli si era rivolto alle autorità locali per ottenere un riconoscimento di nazionalità indiana: gli sarà sembrato il modo migliore per assicurare dei passaporti ai gemelli, permettendone l'espatrio. Pur avendo il tribunale del Gujarat (lo stato indiano di nascita dei gemelli) deciso che, essendo nati di madre indiana su suolo indiano, i bambini potevano considerarsi di nazionalità indiana, l'attuazione della sentenza è stata fermata da un rinvio alla Suprema Corte nazionale. La decisione del tribunale del Gujarat verte sul riconoscimento dello status di madre alla partoriente e pertanto apre la possibilità alla stessa di rivendicare molteplici diritti nei confronti dei figli, del padre, e dello stato. Si capisce che se fosse attuata una tale sentenza porrebbe non pochi problemi ad un industria nazionale che taluni sperano di vedere fatturare 2,3 miliardi di dollari entro il 2012.
Ai bimbi della coppia tedesca sono stati infine concessi documenti di viaggio straordinari per permetterne l'ingresso in Germania, ove i genitori committenti dovrebbero adottarli formalmente (nonostante il padre committente sia anche il padre biologico, e nonostante in India tale adozione risultasse impossibile). Intanto, l'India dibatte un nuovo testo legislativo il quale, fra l'altro, limiterebbe il numero di volte in cui una donna può fungere da surrogata (saranno solo 5) e imporrebbe a committenti stranieri di dimostrare che il loro paese d'origine è disposto a riconoscere la filiazione dei bambini nati e quindi a concedergli documenti di identità. Come dire che una coppia italiana dovrebbe esibire documenti attestanti la disponibilità dello stato italiano a riconoscere la filiazione del nascituro – il che richiederebbe il ribaltamento dell'attuale politica italiana.
Nella confusione creata dai diritti incrociati, numerosi paesi discutono proposte di riforma tese ad evitare il dramma di bimbi bloccati alle frontiere o incapaci di acquisire i normali diritti di cittadinanza, ridurre rischi di sfruttamento di tutte le parti in causa, ed evitare rivendicazioni disdicevoli da parte di gestanti insoddisfatte dei compensi ricevuti. Al centro dei dibattiti vi è la definizione del rapporto fra donatrice di ovociti, portatrice della gravidanza, e madre committente. Chi è «la» madre e quante madri si possono avere? Verrebbe da chiedersi rispetto a quali funzioni, con quali diritti e per quanto tempo una donna è madre di un particolare figlio. L'adozione potrebbe servire da modello – se si volesse riconoscere alle o alla madri biologiche lo status di madre, quantomeno temporaneo. Ma nel linguaggio corrente, la madre biologica va sparendo, scissa in funzioni para-meccaniche che con la maternità parerebbero non avere più assonanza. Il vecchio principio – tutt'ora in vigore in gran parte degli ordinamenti giuridici nazionali – per cui la madre è colei che partorisce perde pregnanza in un contesto che preferisce vedere la donna gravida come locandiera. Alla partoriente si sostituisce la «pancia in affitto.»
Parlare di pance «in affitto» rimanda a diritti di possesso e alienazione. Perché mai una donna non dovrebbe affittare ciò che comunque le appartiene? L'affitto non è una vendita: l'utero torna indietro. E poiché la bimba che nascerà non era mai della locandiera, del suo status di oggetto di scambio non abbiamo motivo di preoccuparci. Parlare d'affitto centra l'attenzione laddove il mercato vuole che rimanga: sul luogo anziché sulla persona che, per cosi' dire, l'alberga. Le femministe (mie amiche) che tanto si preoccupano delle rappresentazioni vittimiste delle donne ogni qualvolta si parla di limitare le pratiche d'infibulazione farebbero bene a notare la passività implicita nell'immagine della locandiera uterina. Stipulato il contratto, la donna non c'entra più: sarebbe l'utero a svolgere magicamente il lavoro di (ri)produzione. Le condizioni tipicamente imposte alle gestanti – niente alcool, niente fumo, niente comportamento «pericoloso» -- equivarrebbero semplicemente a quelle clausole nei contratti d'affitto che vietano al padrone di casa di usare la propria chiave per entrare e fare danni. Siamo forse passate da «noi e il nostro corpo» a «noi e la nostra proprietà immobiliare?»
Viene da chiedersi se la logica della riproduzione surrogata implica il superamento della genitoralita' biologica. Ovocita+spermatozoo+utero=bambino: ciascuna componente ha un suo «fornitore.» La filiazione vera diviene allora prettamente sociale. E' evidente che i genitori sociali – ovvero, coloro il cui status deriva da percorsi prettamente affettivi ed istituzionali – sono genitori. Ma come vogliamo trattare le donne che «producono» bambini? Per alcuni, sono lavoratrici e dovrebbero essere protette come tali: il servizio che forniscono non differisce sostanzialmente da qualsiasi altro lavoro fisico. Occorre perciò assicurarle un salario giusto, garanzie contro i rischi del lavoro, contratti legalmente validi. Il fatto che la retribuzione offerta ad una «pancia» può equivalere a molte volte il reddito altrimenti perseguibile rafforza la percezione che affittare l'utero rappresenta una scelta economicamente razionale da non sottoporre a moralismi indebiti. Al contrario, dare lavora a chi ne ha bisogno appare come una scelta solidaristica iscritta in uno scambio equo.
Per altri, le «pance» sono gestanti come tante donne che finiscono per rinunciare ai propri figli. La gestante su commissione appare allora paragonabile alle madre che cede il proprio figlio in adozione. Essa dovrebbe godere quantomeno dei diritti assegnati a chi da in adozione il proprio figlio, in particolare dovrebbe potere contare su un periodo – limitato – in cui decidere se tornare indietro sulla promessa iniziale di consegnare il neonato. La situazione qui si complica, perché spesso lo spermatozoo e' stato fornito dal marito della coppia committente: alcune famose sentenze giudiziarie hanno quindi individuato il padre nel committente e la madre nella partoriente, decidendo poi a chi assegnare i diritti di convivenza in base al – vago ma universalmente invocato – principio del migliore interesse del bambino. Certo, non è una soluzione che risolve le tensioni del mercato della riproduzione su commessa.
Se la partoriente fornisce un servizio come altri, potremmo desumerne che il prodotto della sua manifattura è una merce come altre – che si può legittimamente comperare e vendere. Se la partoriente è una madre, allora il figlio è «suo» ed è figlio, soggetto ai divieti contro la mercificazione umana che è propria di quasi tutti gli ordinamenti che hanno abolito la schiavitù. Legislatori e tribunali dall'Australia alle Uzbekistan si sono posti o si stanno ponendo queste domande. Arrivare ad un coordinamento internazionale sembra indispensabile. Negare la realtà del mercato corrisponde a nascondere la testa nella sabbia: prima o poi, occorrerà far fronte a ciò che sta accadendo. Adottare un atteggiamento puramente punitivo, criminalizzando la riproduzione surrogata, non potrà che aumentare evasioni della legge, sfruttamento, e ricatto. Ma ciò non significa che sia accettabile la mercificazione di donne e bambini implicita nella riproduzione su commessa. C'era una volta uno slogan: non più macchine per la riproduzione ma donne in lotta per la liberazione. Ce lo ricordiamo forse in poche, con tenerezza nonché un vago brivido di paura di fronte ad una «liberazione» che rinvia ad ideologie ormai messe da parte. Ma vogliamo chiederci se davvero dobbiamo essere complici in questa nuova edizione di «macchine di riproduzione».
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