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Negli ultimi tempi le dichiarazioni di ottimismo si sono moltiplicate; ovviamente da parte dei governi, tra i quali si distingue il nostro, che è riuscito a sostenere che senza "la stampa e la sinistra" della crisi non ce ne saremmo accorti. Ma dichiarazioni di fiducia sono venute da operatori ed osservatori. I motivi principali sono:

 

1) la ripresa delle Borse; le perdite dei primi mesi dell'anno sono state recuperate (ma restano quelle dell'anno scorso, che sono state quelle più pesanti), e, si dice, le Borse anticipano di alcuni mesi la ripresa reale; tuttavia abbiamo visto che le Borse si sbagliano spesso e volentieri;

 

2) la ripresa dei prezzi delle materie prime; dai minimi di febbraio il petrolio e gli input industriali sono risaliti in modo significativo, ma restano comunque bassi (il petrolio si colloca al livello del 2006); questo è dovuto al ciclo delle scorte, che una volta azzerate, vanno ricostituite; a questo ciclo la Cina in particolare sta dando un contributi significativo, acquistando a prezzi di saldo grandi quantità di materie, che comunque le servono, visto che la crescita continua a livello sostenuto;

 

3) dall'andamento degli ordini e delle stessa produzione risulta che la discesa sta rallentando e che stiamo per toccare il fondo; quindi il punto di minimo potrebbe collocarsi verso la metà dell'anno in corso;

 

4) gli spread sui titoli rischiosi (nel senso che sono così considerati dagli operatori finanziari) si stanno riducendo; ad esempio quello sui nostri BTP si è più che dimezzato.

 

 

Nel frattempo però i dati sull'andamento economico e le previsioni degli organismi internazionali vengono aggiornati con dei segni meno sempre più consistenti. La trimestrale del governo, uscita con un mese di ritardo (forse si sperava in notizie migliori?) ha raddoppiato - rispetto alle stime di fine anno 2008 - la caduta del Pil nel 2009 (-4,2%) prevedendo una quasi impercettibile ripresa nel 2010 (+0,3%), ed una un po' più consistente nel 2011 (+1,2%). Queste percentuali sono analoghe a quelle della Commissione europea, ma sono nettamente più ottimiste di quelle del FMI, che invece prevede una diminuzione del Pil anche per l'anno prossimo (-0,4%), e una ripresa molto più debole nel 2011 (+0,5%).

 

 

Non vale la pena entrare nei dettagli delle varie previsioni; piuttosto la notizia di maggior rilievo è che gli Stati Uniti stanno facendo meglio dell'Europa. Pur essendo partiti in ritardo per via dei tempi dell'insediamento di Obama, il governo statunitense ha agito con molta maggiore decisione dei governi europei. C'è voluto il crollo della produzione industriale in Germania per convincere il governo tedesco che, anche se la crisi finanziaria era partita dall'America, quella reale avrebbe investito un paese che si regge sulla produzione di beni d'investimento. Non è un caso che la maggiore caduta sia stata proprio quella della Germania, seguita dall'Italia, cioè i due paesi dove il peso dell'industria manifatturiera è maggiore.

 

 

L'aumento della disoccupazione sta avvenendo, come è consuetudine, in modo più rapido negli Usa che in Europa, dove però il processo si sta intensificando. Nel nostro paese vi è poi il fenomeno del lavoro scoraggiato - soprattutto l'offerta di lavoro femminile nel sud - che non si riflette sui dati della disoccupazione.

 

 

L'Europa ha reagito con ritardo, con misure solo nazionali, rifiutando di dare un ruolo propulsivo alla Commissione, ma alla fine qualche cosa ha fatto. Il nostro governo, o meglio bisognerebbe dire Tremonti, hanno deciso di far agire gli esistenti stabilizzatori automatici (compreso quello improprio dell'evasione fiscale) e basta. Il motivo è ovviamente quello del debito pubblico, e del rischio di essere castigati dai mercati finanziari. Il problema esiste; gli operatori finanziari hanno dei riflessi alla Pavlov; fuggono via dai titoli rischiosi, o chiedono tassi molto più alti. Tuttavia con una certa lentezza riescono anche a capire che l'Italia ha un alto debito pubblico ma un basso debito privato, e che tra un paio d'anni, a crisi finita, il livello del nostro debito pubblico sarà più alto di quello degli altri paesi, ma la distanza sarà minore; l'incremento percentuale degli altri paesi sarà maggiore.

 

 

Se il governo avesse varato una seria riforma degli ammortizzatori sociali, aumentando ed estendendo l'indennità di disoccupazione, con uno stanziamento di un punto di Pil, avrebbe potuto presentare una spesa che avrebbe agito come stabilizzatore automatico e che si sarebbe ridotta una volta superata la crisi. Avrebbe potuto anche risparmiare una serie di spese effettuate a fini politico-elettorali.

 

 

Da varie parti si sostiene che però misure keynesiane espansive si sarebbero dovute accompagnare con un intervento sulle pensioni. Non c'è dubbio che agli operatori finanziari una cosa del genere sarebbe piaciuta, perché è da quattordici anni che si sentono dire che l'Italia spende troppo per le pensioni (l'altro luogo comune è l'eccesso di protezione del lavoro). Vale la pena ricordare alcuni fatti: ancora per un quinquennio la gran parte dei lavoratori vanno in pensione col sistema retributivo (quello ritoccato da Amato nella finanziaria 1993); poi incominceranno a crescere sempre di più i lavoratori che vanno in pensione col sistema misto, ed anno dopo anno la parte contributiva crescerà fino a diventare totale. Cercare di far rinviare il pensionamento ad un lavoratore che va in pensione col contributivo non serve a nulla, dal punto di vista degli effetti di lungo periodo della spesa pensionistica.

 

 

Insomma il "peccato originale" è già avvenuto, per cui bisognerebbe che il governo decidesse di ridurrere la pensione a tutti quelli che sono andati a riposo dopo il 1995; siamo a livello di fantascienza, tanto varrebbe proclamare l'eutanasia. Decidere di spostare di un anno quei lavoratori che ancora devono andare in pensione col retributivo serve a poco. In realtà se il governo decidesse di compiere una azione incisiva sugli acquisti intermedi della P. A. i miliardi che si risparmierebbero sarebbero molti di più. Ma lì si toccano gli interessi delle imprese e di molti apparatniki del settore pubblico.

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