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L’articolo 8 è contro la Costituzione

08/09/2011

Stento a credere che, nell’infilare l’art. 8 nel decreto legge 138 del 2011, approfittando della manovra finanziaria, il ministro Sacconi non sapesse o avesse dimenticato (assieme ai suoi consiglieri) che il diritto del lavoro è un sistema complesso di regole, tenute insieme da quella logica stringente ed elementare, che i professori raccontano agli studenti di Giurisprudenza nella prima lezione del corso. Posto che un tizio disposto a lavorare per altri, nella stragrande maggioranza dei casi, è un soggetto debole sul mercato del lavoro – soprattutto se c’è crisi occupazionale – e che poi, se ha la fortuna di essere assunto, diventa debole perché sottoposto al suo datore di lavoro, non può essere un semplice contratto tra i due a stabilire le regole del loro rapporto. Infatti, il timore di essere senza lavoro vizia la volontà del lavoratore e, quindi, fa presumere che tali regole non siano concordate, ma dettate dal solo datore di lavoro.

Perciò occorre la legge a ristabilire, per quanto possibile, la parità contrattuale tra datore e lavoratore, vale a dire a fissare diritti e doveri nello scambio della forza-lavoro, in pratica sostituendo alla volontà dei contraenti norme legali, che ovviamente sono inderogabili: anche perché quasi tutte radicate in principi della Costituzione, dunque vincolanti per lo stesso legislatore.

Questa rigida inderogabilità delle norme legali può subire qualche attenuazione se a tutelare i lavoratori è la contrattazione collettiva, strumento ad hoc che la stessa Costituzione prevede all’art. 39. Se ne intuisce la ragione: se il lavoratore è garantito dal sindacato, è meno solo e, dunque, meno debole contrattualmente. Si tratta di un’attenuazione affermata dalla giurisprudenza e dalla dottrina e agevolata dalle politiche unitarie di una stagione sindacale, ispirata a quella concertazione sociale – tra governo, imprese e sindacati – che ha consentito al paese di crescere, superando più d’una crisi economico-produttiva.

Arriviamo così al punto centrale e più delicato del problema. Se è vero che il fondamento della contrattazione collettiva è la libertà sindacale – grazie alla quale, nel tempo, la contrattazione si è molto articolata e variegata, a seconda dei settori, delle categorie e dei livelli territoriali – è altrettanto vero che non può essere qualunque sindacato e qualunque contratto collettivo ad attenuare l’inderogabilità delle norme legali. Ciò si deduce inequivocabilmente dai commi successivi al primo dell’art. 39 della Costituzione: dove si prevede che a stipulare il contratto collettivo nazionale con efficacia erga omnes per tutti i lavoratori di una categoria, sia una rappresentanza unitaria, proporzionata al numero degli iscritti ai sindacati registrati della categoria medesima, aventi uno statuto a base democratica.

Il fatto che tali commi non siano attuati in legge ordinaria non vuol dire che non esistano. Vuol dire semmai che il legislatore, se e quando interviene nella materia, deve comunque rispettare almeno lo spirito della norma costituzionale, sintetizzabile in due requisiti irrinunciabili della contrattazione: effettiva rappresentatività e democrazia sindacale. E difatti si deve alla sapienza giuridica di Gino Giugni, estensore dello Statuto dei lavoratori nel 1970, aver dato spazio e voce, a livello aziendale, ai sindacati confederali più rappresentativi: in piena coerenza, appunto, con lo spirito della Costituzione, come più volte ribadito in quarant’anni dalla Corte costituzionale. Non a caso la legge 300 del 1970 viene indicata come legislazione di sostegno e di promozione dell’autonomia sindacale: essa valorizza il movimento confederale unitario e democratico dei lavoratori, selezionandone gli enti esponenziali degli interessi, secondo criteri di razionalità organizzativa e compatibilità con le esigenze produttive.

Fondamentale, in un simile contesto, è l’armonico equilibrio tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale, onde evitare il prevalere dell’aziendalismo e del corporativismo categoriale. Solo una feconda e continua dialettica tra Confederazioni, Sindacati di categoria e Rappresentanze aziendali può davvero giovare al sistema economico-produttivo nel suo complesso.

Un grave vulnus a questo equilibrio è stato dato dal nefasto referendum del 1995, dal quale l’art. 19 della legge 300 sulle rappresentanze sindacali aziendali è uscito monco della parte più significativa ed importante. Consentendo ad una qualsiasi aggregazione sindacale di firmare un qualsiasi accordo aziendale per vedersi riconosciuta la rappresentatività, non si fa altro che agevolare la frammentazione e la dispersione degli interessi dei lavoratori e dare spazio ad organismi sindacali estemporanei: simili – seppure, almeno per ora, di segno uguale e contrario – a quei gruppuscoli di estrazione (allora si diceva) “extraparlamentare”, particolarmente attivi all’epoca della conflittualità permanente del ‘68-69 del secolo scorso.

Ebbene, con l’art. 8 del decreto legge 138, in pratica si stabilisce una linea di continuità logica, dal punto di vista giuridico: con l’aziendalizzazione della rappresentanza, della contrattazione e della conflittualità; e, approfittando delle divisioni sindacali (il famoso divide et impera!), si tenta di soppiantare la contrattazione nazionale. Né serve indorare la pillola avvelenata intitolando l’art. 8 “sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”: un’oscura tipologia dalla equivoca configurazione! Mi chiedo come possa il legislatore di una Repubblica “fondata sul lavoro” dare sostegno ad una contrattazione aziendale sapendola a dir poco drogata: perché gestita con molta probabilità da sindacati di comodo del datore di lavoro e perché i lavoratori, impauriti dalla perdita del lavoro, sono disposti obtorto collo ad accettarla persino con un referendum, magari pilotato.

Ad ogni buon conto, il sistema dell’art. 8 è contrario alla Costituzione, perché la contrattazione nazionale di categoria, ove vengono fissati i minimi di trattamento economico e normativo dei lavoratori di una determinata categoria professionale, è uno strumento costituzionalizzato dall’art. 39 – quindi non disponibile dal legislatore ordinario – volto a garantire l’eguaglianza sostanziale, sancita all’art. 3 della Carta: non solo tra i lavoratori di una stessa categoria, ma anche – si badi – tra le imprese di uno stesso settore. Sorprende anzi che quest’ultimo aspetto non sia stato per nulla messo in luce dalle organizzazioni imprenditoriali, che pure lamentano continuamente la pesantezza della competizione globale, spinta da una concorrenza sleale proprio sull’uso della manodopera.

La verità è che il sistema del diritto del lavoro non può fare a meno, per funzionare, del collegamento tra la legislazione e la contrattazione nazionale, gestita unitariamente da soggetti sindacali effettivamente e democraticamente rappresentativi. Questa è una oggettiva esigenza tecnico-giuridica, oltre che politico-sindacale. La contrattazione aziendale può dettare regole per una certa azienda solo se autorizzata dalla contrattazione nazionale: modello peraltro ribadito dall’accordo tra le parti sociali confederati del 28 giugno 2011. Perché non tener conto di talune buone prassi sindacali che possono realmente giovare all’economia?

Il legislatore allora, anziché impegnarsi in interventi surrettizi, estemporanei e poco meditati, si applichi piuttosto ad agevolare senza ipocrisie la concertazione tra le parti sociali per un riordinamento serio e tecnicamente rigoroso della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva. Sempre che la ragion politica non gli faccia preferire il disordine giuridico!

(Mario Rusciano è ordinario di Diritto del lavoro e presidente del Polo delle Scienze Umane e Sociali dell’Università di Napoli Federico II)

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