1. Il contratto a tempo indeterminato garantisce un rapporto di lavoro stabile e corredato di tutte le tutele standard? Non necessariamente
Nel comune sentire, così come nel linguaggio comune, il “contrario” di precarietà è stabilità. Nel diritto, e nel diritto del lavoro in particolare, non esiste tuttavia una definizione normativa – e dunque neppure una disciplina unitaria e univoca – di precarietà e stabilità. Questa osservazione, di per sé banale, ha tuttavia conseguenze nient’affatto banali.
Trasformare contratti intrinsecamente, “naturalmente” precari (i contratti a termine o il lavoro a progetto, due esempi paradigmatici di contratti “temporanei”) in contratti a tempo indeterminato certo è un obiettivo auspicabile perché elimina la precarietà in senso stretto, aprendo le porte alla stabilità. Ma la stabilità è comunque relativa, il che è ovvio, e soprattutto la sua effettività dipende dallo status del lavoratore, che a sua volta dipende dal “tipo” di contratto di lavoro a tempo indeterminato e dalla disciplina della risoluzione di quel tipo di contratto. Detto in altri termini, il grado di stabilità dipende dalle condizioni che devono ricorrere perché il datore di lavoro possa legittimamente licenziare il lavoratore o la lavoratrice e, al contempo, dalla “forza” delle sanzioni (giuridiche) che si applicano al datore di lavoro nel caso in cui abbia licenziato senza che quelle condizioni ricorressero, sanzioni che, a loro volta, si traducono in diritti, “forti” o “deboli”, riconosciuti alla persona che è stata vittima di un licenziamento “ingiusto”.
Proviamo a fare un esempio, prendendo spunto da recenti dati riportati dalla stampa[1], letti in una prospettiva di genere. Confermata la maggior presenza (78,4% contro 73,4%) delle donne tra i destinatari di contratti temporanei, si osserva invece, presentandolo come un dato positivo[2], che il 40,6% dei contratti di lavoro stipulati con cittadini stranieri è rappresentato da contratti a tempo indeterminato, e dunque, secondo la vulgata corrente, “stabili”. Questa preponderanza di contratti a tempo indeterminato – scontato il ricorso a lavoro a termine nell’edilizia e scontato il ricorso contratti a tempo indeterminato per “lavori pesanti” in alcuni settori industriali del nord – è ricondotta, ragionevolmente, ai rapporti di lavoro (quelli regolari, s’intende) che le famiglie stipulano con lavoratori, per lo più lavoratrici, stranieri/e nel settore dell’aiuto domestico e del babysitting, ma soprattutto nel settore dell’assistenza agli anziani. Ma è davvero corretto ritenere che questi rapporti di lavoro, regolari e a tempo indeterminato, siano necessariamente lavori stabili e corredati di tutti i diritti che riteniamo generalmente siano “incorporati” nei contratti standard? La risposta deve essere negativa, alla luce della disciplina giuridica del rapporto di lavoro domestico, nel quale – solo per fare qualche esempio[3] – la maternità non è protetta al pari rispetto agli altri rapporti di lavoro e la stessa stabilità sostanzialmente non esiste, poiché il datore di lavoro può recedere liberamente (= licenziare la badante). Mi pare basti questo esempio, specifico ma certo non marginale nell’esperienza del lavoro femminile (dal lato sia dell’offerta che della domanda di lavoro domestico), per dimostrare che la stipulazione di un contratto a tempo indeterminato non garantisce, di per sé, né la stabilità del rapporto né i diritti fondamentali della persona che lavora. L’esempio induce peraltro a ribadire, ancora una volta[4], la necessità di tornare a riflettere sul lavoro domestico, fattispecie negletta del diritto e delle politiche del lavoro (ma non è questa l’occasione per farlo).
2. Come ridurre la precarietà con interventi al margine
Sfatato il mito del contratto a tempo indeterminato come sinonimo di stabilità e panacea di tutte le carenze di diritti (di maternità, di conciliazione, etc.), resta il fatto che il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenta comunque, ad oggi, l’unica via di accesso a quella che potremmo definire “stabilità protetta”. Ben vengano dunque gli interventi legislativi che si propongono, almeno, la riduzione della precarietà.
Merita allora indicare taluni tratti che accomunano alcune recenti proposte di riforma, trascurando qui di considerare le molte e importanti differenze che le separano. In questa sede, mi limito a richiamare l’attenzione sull’indicazione, che pare emergere in modo trasversale nei disegni di legge S2000 (5 febbraio 2010)[5] e S2419 (28 ottobre 2010)[6], di intervenire, per ridurre la precarietà, sul piano delle convenienze economiche dei datori di lavoro, riducendo i costi indiretti del lavoro “stabile” e/o aumentando quelli del lavoro “precario”.
L’art. 9 del ddl S2000 prevede per i lavoratori a termine l’incremento di un punto percentuale dell’aliquota contributiva per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, e la stessa previsione viene riproposta all’art. 14 del ddl S2419. L’art. 7 del ddl S2419, con analoga logica, introduce poi un progressivo incremento delle aliquote contributive per i lavoratori iscritti alla c.d. gestione separata dell’Inps (lavoratori a progetto, associati in partecipazione, etc.: tutte forme troppo spesso utilizzate surrettiziamente per evitare la stipulazione di contratti di lavoro subordinato). Molto meno convincente appare invece la (ennesima) proposta di incentivi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato (art. 8 dddl S2419).
Come ho avuto occasione di dire in altra sede[7], a me pare che si possano adottare almeno alcuni provvedimenti minimi per ridurre la precarietà. Cedendo alla tentazione di “giocare al piccolo legislatore”, e facendo miei frammenti di proposte anche da altri formulate[8], la mia modesta proposta era e resta quella di rendere più costosi sia i contratti di lavoro a progetto, sia i contratti a tempo determinato.
Una prima via praticabile è quella della parificazione dell’aliquota contributiva per lavoro subordinato (oggi pari al 33%) e lavoro a progetto (oggi al 26%), superando il forte differenziale che attualmente penalizza da una parte il ricorso al lavoro subordinato e dall’altra (a fronte di contributi ridotti) la protezione previdenziale per i lavoratori a progetto. Per questa via si sopprime uno dei vantaggi competitivi propri del lavoro a progetto rispetto al lavoro subordinato[9], e si può finalmente costruire un futuro pensionistico “decente” per i lavoratori a progetto. In questa direzione si muove il ddl S2419 sopra menzionato, che allinea progressivamente (27% nei primi due anni, 28% dal terzo anno) le aliquote dei lavoratori a progetto (e dintorni) a quella prevista per i lavoratori subordinati, che nella Relazione al ddl si propone di ridurre al 28% (in futuro, con altro atto normativo). Due critiche, tuttavia. In primo luogo la proposta sconta una condizione di improbabile realizzazione (la riduzione di 5 punti dell’attuale aliquota contributiva per i lavoratori subordinati, della quale peraltro non è affatto chiaro quali potrebbero essere le ricadute, in termini di diritti previdenziali). In secondo luogo, ed in particolare considerando l’aleatorietà della condizione appena richiamata, la proposta appare davvero troppo timida, rappresentando solo l’ennesimo (seppure benefico) modesto incremento dell’aliquota per i lavoratori a progetto, nella scia della troppo lenta progressione avviata negli ultimi anni.
Una seconda via è quella di introdurre specifici contributi aggiuntivi per l’assicurazione contro la disoccupazione a carico dei datori di lavoro che assumano con contratto a tempo determinato; in questa direzione si muovono entrambi i ddl qui considerati, incrementando di un punto il costo del lavoro a termine.
3. Della necessità di un approccio neo-regolativo in materia di stabilità
Molto probabilmente questi incrementi di costi saranno percepiti dalle aziende come “punitivi”; proprio per questo è necessario che, nell’adottare questi provvedimenti, le ragioni di queste scelte e le finalità di destinazione delle maggiorazioni contributive siano dichiarate e trasparenti. Deve essere a mio avviso chiaro che si tratta di interventi “regolativi” (volti a finanziare servizi per l’occupazione, formazione per i lavoratori precari, significativi assegni di disoccupazione, adeguate tutele previdenziali, etc.) e non di interventi “punitivi”: altrimenti, all’italiana, si avvierebbe la corsa alla creazione di “eccezioni meritevoli”: il lavoro stagionale, i picchi di attività, lo start up, le piccole imprese etc. etc. etc.
Tutto questo può essere realizzato senza aumentare la spesa pubblica, anzi con un beneficio netto per la finanza pubblica, che potrebbe, e dunque dovrebbe, ridisegnare un sistema di welfare adeguato. Mi pare importante tenere fermo questo punto (invarianza della spesa pubblica) nell’attuale situazione economica, per evitare di presentare proposte che, diversamente, verrebbero criticate “a scatola chiusa”, senza scendere a discuterle nel merito, per la sola ragione che aumenterebbero la spesa pubblica. Anche per questo sono contraria agli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato, che peraltro notoriamente “premiano” anche le assunzioni che comunque si sarebbero verificate, e “obbligano” gli estensori di progetti di riforma a procedere escludendo dai benefici le aziende che (si suppone, ma si tratta di una mera ipotesi semplificatrice) assumerebbero a tempo indeterminato “comunque”: così è “costretto” a fare, per esempio, l’art. 8 del ddl S2419, escludendo le deduzioni IRAP previste per tali assunzioni presso un ampio ventaglio di imprese (bancarie, assicurative, concessionarie di servizi pubblici, etc.).
4. Conclusioni
Con tutta evidenza, le modeste (ma non inutili) proposte qui considerate rappresentano soltanto aggiustamenti al margine, ovvero modifiche normative che non intervengono né sulle ragioni strutturali della precarietà dell’occupazione né sulle “condizioni d’uso” dei contratti in senso lato precari (il contratto a termine, in particolare), né, tanto meno, sul “pacchetto” di diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti ad ogni lavoratore e ad ogni lavoratrice (anche alle badanti, per riprendere l’esempio iniziale).
Resta infatti tutto da sondare il versante dei confini tra subordinazione e lavoro a progetto, delle giustificazioni necessarie per apporre il termine ad un contratto di lavoro, dei controlli (pubblici) sul corretto impiego dei modelli contrattuali utilizzati di volta in volta dalle aziende, della definizione di diritti universali per tutti i lavoratori subordinati. Anche su questo versante esistono proposte di intervento e disegni di legge (tra i molti, quelli sopra citati), e in altra occasione potranno essere valutate. Ma questa, appunto, è un’altra partita.