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L'università accerchiata

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Un ufficio contratti, una segreteria, persino un’esperienza in cassa, a battere scontrini. Per otto ore, o più, al giorno, per mesi e mesi, fors’anche per tre anni di fila. Che non rappresentano, però, la durata di un contratto lavorativo, ma quella del dottorato in “Formazione della persona e diritto del mercato del lavoro”, attivato un anno fa dall’Università di Bergamo, e inaugurato dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi.

Quelle che abbiamo descritto sono le mansioni e i tempi dell’impegno dei 12 dottorandi che hanno avuto accesso al corso, vincendo borse di studio private del valore di 1.030 euro mensili (cui il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha affiancato altre 12 borse di studio pubbliche). Le imprese finanziatrici -tra le altre Ikea, Liquigas, Esselunga e alcuni importanti studi legali- si portano in ufficio un dottorando, che ai loro occhi è soprattutto un appetibile lavoratore qualificato. Così il dottorato, da sempre il primo gradino di una carriera universitaria in Italia, perde il suo valore di triennio dedicato a studio e ricerca per diventare una riserva di forza-lavoro a basso costo. È la nuova frontiera della sperimentazione in ambito universitario, all’intersezione fra istruzione terziaria e inserimento professionale. Quello di Bergamo è il caso limite di una dinamica, lo sfruttamento privatistico delle risorse dell’università pubblica, che si è avviata almeno vent’anni fa, ma che può trarre nuovo impulso dalla recente riforma Gelmini. Un processo multiforme, che coinvolge su livelli diversi dottorandi e studenti in stage, ricerca applicata e tesi di laurea sperimentali, immobili di pregio e servizi in appalto, fino alla ridefinizione del sistema del diritto allo studio, passando per la disinvolta gestione delle fondazioni di diritto privato che ovunque proliferano. Tutti casi in cui l’interesse pubblico, per inerzia o connivenza, si ritira, cedendo il passo alle logiche -e spesso al profitto- dei privati. Del resto, dopo spesa previdenziale e sanità, è questo il settore pubblico in cui girano più soldi: l’istruzione universitaria costa allo Stato circa 7 miliardi di euro per la sola gestione ordinaria, mentre le famiglie spendono 1,5 miliardi di tasse universitarie negli atenei pubblici, cui vanno aggiunti i costi per libri, altri materiali e eventuali alloggi e pasti per i fuori sede.

Una macchina enorme (gli studenti, in tutto, sono 1,7 milioni), il cui controllo ha risvolti economici, ma anche culturali, che sempre più interessano i privati. Come succede a Bergamo, dove mansioni e tempistica dell’opera svolta dai dottorandi in “Formazione della persona e diritto del mercato del lavoro” possono variare, ma il vantaggio per le aziende è chiaro. Una voce nel regolamento didattico del dottorato, definendo il computo dei crediti formativi, apre la strada allo sfruttamento dell’impresa: “Internship e attività di ricerca concordate con uno o più sponsor della Scuola” valgono “da 1 a 120 crediti”. Questi, uniti ai 60 della tesi finale, porterebbero dritti ai 180 che consegnano il titolo di dottore di ricerca. Il dottorato, cioè, è conseguibile trascorrendo la maggior parte dei tre anni di corso in azienda. Dalla ricerca si passa così al placement. Con possibile soddisfazione di alcuni dottorandi, ma sicura approvazione delle imprese coinvolte, che acquisiscono a un costo molto basso -e integralmente detraibile- lavoratori qualificati per un periodo ben più lungo degli stage universitari tradizionali, senza nemmeno l’obbligo di garantire loro un contratto d’apprendistato o l’assunzione a fine periodo. Che non si tratti di un caso ma di una eloquente sperimentazione lo mostrano anche altri elementi. Come i passaggi della riforma Gelmini (legge 240/2010) che “liberalizzano” i dottorati, che potranno essere banditi anche da istituzioni non universitarie, e rimuovono altri vincoli, ponendo la figura del dottore di ricerca in asse con le esigenze del mercato. O come evidenzia il recente piano “Italia 2020” per “l’occupabilità dei giovani”, sempre a firma dei ministri Sacconi e Gelmini, che al punto 6 invoca “l’apertura dei dottorati di ricerca al sistema produttivo e al mercato del lavoro”. Un bacino di pescaggio di competenze e personale. A buon mercato.

La ricerca (dei fondi)
C’erano, una volta, i contratti di ricerca, i test inlaboratorio, gli incubatori d’impresa. Oggi ci sono ancora, ma nei rapporti fra privati e ricerca universitaria pubblica sta crescendo ben altro. “Gli ‘accordi di partnership’ prevedono un rapporto strutturato fra azienda e università, della durata di 3-5 anni”, spiega Maria Schiavone, del servizio rapporti esterni del Politecnico di Torino. Gli accordi di partnership attivi per il Polito sono 35, e crescono al ritmo di 5 o 6 all’anno, con la partecipazione di soggetti come Ferrero, Pirelli, Lavazza o Avio. “Si tratta -riprende Schiavone- della frontiera più avanzata della collaborazione fra impresa e università”, che si sviluppa soprattutto nei dintorni dei politecnici. Gli accordi possono includere l’istituzione di laboratori congiunti, ricerche mirate, progetti regionali e percorsi di formazione che portano gli studenti anche a lavorare dentro le aziende. Con grandi benefici anche per le università coinvolte: il 70% circa delle entrate di bilancio 2010 del Politecnico di Torino proviene da partnership con istituzioni private e pubbliche. Accordi che comportano seri rischi di condizionamento dell’attività di ricerca. Come nel meccanismo dell’inserimento negli atenei pubblici di docenti pagati con fondi di privati. Al Politecnico di Torino oggi sono 23 -e il solo accordo con Avio prevede l’inserimento di 7 nuovi ricercatori a spese dell’impresa-. Personale accademico a tutti gli effetti, professori e ricercatori per i quali l’azienda versa tipicamente il corrispettivo di una decina d’anni di stipendio, ma che in seguito restano in carico al ministero. E possono servire da “teste di ponte per gli interessi dell’azienda -spiega Giorgio Faraggiana, ricercatore in Scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino-, perché possono indirizzare la ricerca in favore delle imprese di riferimento”. Un meccanismo che si sta diffondendo anche al di fuori dei politecnici. C’è poi il timore di conflitti d’interesse più tradizionali. È il caso, ad esempio, dello studio effettuato dall’Istituto superiore sui sistemi territoriali per l’innovazione (Siti), che in una relazione preliminare ha sostenuto che non fosse necessario procedere a una valutazione d’impatto ambientale per la costruzione del nuovo Centro direzionale di Intesa Sanpaolo, il contestato grattacielo progettato da Renzo Piano che dovrebbe sorgere nei pressi del centro storico di Torino. Siti, che ha ffettuato lo studio -contestato nel merito da un ricorso al Tar di Italia Nostra-, è una fondazione scientifica che ha tra i soci fondatori il Politecnico di Torino e la Compagnia di San Paolo, fondazione che a sua volta fa riferimento al gruppo bancario Intesa Sanpaolo. Ed ecco i dubbi sull’indipendenza di uno studio in cui l’ente valutato finanzia indirettamente l’ente valutatore. Ma il privato può avvantaggiarsi della ricerca universitaria pubblica anche per un semplice risparmio economico: fare ricerca attraverso l’università costa a un’azienda molto meno che realizzarla in proprio, sostenendo i costi di strutture, strumentazione e personale. Una scelta parassitaria, talvolta obbligata per le imprese piccole e medie, ma anche imputabile a una mera logica contabile: un assegnista di ricerca costa 20mila euro scarsi in un anno ed è un investimento che può venire acceso e spento secondo necessità. E l’incontro fra domanda e offerta è tanto più agevolato in un periodo in cui la ricerca universitaria pubblica affronta una mancanza crescente di risorse: a fine 2010 non erano ancora stati emessi i bandi per i fondi ministeriali Prin (Programmi di ricerca d’interesse nazionale) relativi al 2009. In pratica, per la prima volta, si è saltato un anno. Ma una proiezione effettuata da alcuni ricercatori della Statale di Milano mostra come questi fondi andranno a zero nel 2016, se non si interviene sulle attuali tendenze. “Se calano i fondi pubblici, al ricercatore non resta che rivolgersi ai privati pur di fare qualcosa” dice Bruno Catalanotti, ricercatore di Chimica alla Federico II di Napoli. E anche nella sua università, un ateneo “generalista” ben diverso dai politecnici, oltre un terzo delle risorse per la ricerca vengono dai privati, prevalentemente con la modalità del conto terzi, che lascia nelle mani del committente la proprietà dei risultati. Il forte calo delle risorse ministeriali per la ricerca è solo parzialmente compensato dai privati, cui si aggiungono bandi di origine europea e regionale, in crescita negli ultimi anni. Ma diversi di questi bandi favoriscono di nuovo le partnership con i privati, quando non ne fanno addirittura una condizione vincolante (è il caso, per esempio, dei fondi europei orientati alle piccole e medie imprese). E “mentre per i Prin i temi di ricerca erano proposti dagli accademici, in quasi tutti gli altri casi lo definisce il committenti” spiega Daniele Checchi, economista e preside di scienze politiche alla Statale di Milano. A restare a secco in questo scenario sono le discipline umanistiche. Settori come i beni culturali necessiterebbero di fondi pubblici, perché non sono remunerativi per i privati. Ma lo stesso discorso vale in alcuni settori scientifici: “E chi fa più ricerca in determinati ambiti medici? Per esempio, c’è molta attività sul sistema nervoso centrale, che è fruttuoso per le aziende, ma su certe malattie genetiche, che colpiscono 5-10 persone l’anno in Italia, o sulla malaria la ricerca non la fa nessuno”, aggiunge Catalanotti. La stessa ricerca di base viene marginalizzata, mentre può crescere la ricerca applicata. “Ma neanche troppo, non ci sono grandi disponibilità sul mercato, neanche per i privati”, spiega Alessandro Ferretti, ricercatore in Fisica alla Statale di Torino. “Il sistema così com’è non regge, perché è in bilico tra il pubblico che si ritira e i privati che si limitano a sfruttare le risorse universitarie, senza dare nuova linfa alla ricerca”.

Caccia agli immobili universitari
L’ex ospedale psichiatrico San Niccolò è una magnificente struttura, inaugurata a Siena nel 1818. Oggi fa parte del patrimonio di Fabrica Immobiliare, che l’ha acquistata nel 2009 dall’Università di Siena per 74 milioni di euro. Solo un anno prima nell’ateneo toscano era scoppiato il bubbone finanziario più grave dell’università italiana: un buco di bilancio di quasi 300 milioni di euro. Nel piano di risanamento della voragine contabile -che ancora oggi si sta allargando- si è decisa anche la vendita di alcuni gioielli di famiglia, come il San Niccolò e il Policlinico universitario Le Scotte, “svenduto per 108 milioni alla Regione Toscana, nonostante ne valga più o meno il doppio”, dice Giovanni Grasso, ordinario di anatomia a Siena. Più corretto è apparso il prezzo di vendita del San Niccolò, che però è ora affittato alla stessa università per una cifra intorno ai 5 milioni annui. A riscuotere l’affitto c’è, appunto, Fabrica Immobiliare, una società di proprietà dell’Inpdap (l’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica), che vantava un credito colossale nei confronti dell’ateneo senese, e che ha tra i soci la Fincal dei Caltagirone e il Monte dei Paschi di Siena, che attraverso la sua Fondazione è un importante finanziatore dell’ateneo. La coerenza dell’investimento per Fabrica Immobiliare è data anche da uno dei fondi operativi di sua gestione, il “Fondo Aristotele”, consacrato agli investimenti immobiliari nei settori dell’università e della ricerca. A Siena è oggi in vendita anche la Certosa di Pontignano, uno splendido complesso a Nord della città, oggi centro congressi dell’università. Lo scorso 30 novembre è andata deserta un’asta che aveva come prezzo base 68 milioni. La quotazione dovrà scendere, forse avvicinandosi al valore indicato da uno studio che valuta l’immobile fra i 10 e i 21 milioni, redatto da Sansedoni spa. La società, i cui soci principali sono Fondazione e Banca Monte dei Paschi di Siena, ha realizzato all’inizio del 2009 uno studio di fattibilità sulle opportunità di valorizzazione della Certosa. “Incerte”, dicono, nonostante “l’unicità architettonica” dell’immobile. E Siena potrebbe essere solo l’inizio. A Bari il rettore ha annunciato dismissioni immobiliari per 40 milioni per ripianare i passivi, mentre l’Istituto universitario di architettura di Venezia per fare cassa sta valutando la cessione di almeno un immobile, e in lizza ci sono anche due palazzi storici. Ma il capitolo immobiliare si estende anche all’edilizia universitaria, un altro possibile terreno di caccia per i privati, che vedono con favore l’estensione del sistema di project financing. È il caso, per esempio, del polo di Grugliasco della Statale di Torino, in costruzione con il 50% di fondi di privati (Fondazione Crt), che verranno remunerati col pagamento di un affitto da parte dello Stato per i trent’anni di durata della concessione. Privati tentati dall’edilizia universitaria, dunque, ma soprattutto dal patrimonio immobiliare degli atenei. È questa l’opportunità che si schiude, anche grazie ai secchi tagli ai fondi pubblici. “In un regime di drammatici tagli ai fondi e di autonomia sempre più vasta per le università, il rischio è che tanti si mettano a vendere immobili di pregio pur di assestare i bilanci”, dice Franco Russo, ricercatore in chirurgia a Roma Tor Vergata e responsabile sindacale per la Cisl nell’ateneo. “E sono a rischio soprattutto i patrimoni immobiliari delle università più grandi e con più storia”.

Le mani libere di fondazioni e territori
Intanto intorno alle università italiane, negli ultimi anni, è sorto ogni genere di fondazione. Ci sono quelle con finalità scientifiche, com’è il caso del Siti o dell’Istituto Boella, che fanno capo al Politecnico di Torino e hanno forti relazioni con le imprese, cui possono fornire ricerche impiegando, con costi ridotti, anche personale universitario. Ci sono le “fondazioni universitarie”, regolate dal dpr 254/2001, che hanno la principale finalità del fund raising in favore dell’università, e spesso possono riassorbire servizi interni all’ateneo, gestendoli con modalità privatistiche. Un censimento del ministero dell’Istruzione (Miur) ne conta 17, alcune delle quali includono soci privati, come a L’Aquila, dove tra i fondatori ci sono due banche e la Confindustria locale, mentre l’Eni è fra i partecipanti istituzionali. Altre ne stanno sorgendo: a Roma Tre la Fondazione “CeSTIA”, in preparazione da mesi nonostante le proteste e l’accusa di volere scorporare e gestire privatisticamente le migliori risorse dell’ateneo. “Cosa succederà degli immobili dell’università se verranno alienati alla fondazione, chi ci garantisce sul loro destino?” si chiede Teresa Numerico, ricercatrice in Filosofia a Roma Tre.Ed esistono persino fondazioni ibride, come quella del Policlinico Tor Vergata, l’ospedale universitario sorto sui terreni dell’ateneo, che della fondazione è socio assieme alla Regione Lazio. Fra le competenze vi è l’assegnazione esterna alle migliori condizioni possibili di una serie di servizi relativi al Policlinico, pagati con i soldi dei contribuenti. Ma la fondazione, operativa dal 2008, è già incorsa in alcune stranezze: di recente ha aggiudicato, per ben nove anni e per oltre 33 milioni di euro, un appalto per la fornitura di servizi di lavanderia e di sterilizzazione di ferri chirurgici,. “Una cifra che pare elevata per un ospedale di 400 letti -dice il ricercatore Russo-. C’è stato anche il caso dei premi assicurativi per la responsabilità civile medica corrisposti dal Policlinico alle Generali, che negli ultimi tre anni sono quasi triplicati”.

La Favola delle "parificate"
“Il declino delle condizioni di studio e di ricerca negli atenei pubblici può risolversi a tutto vantaggio delle università private esistenti, o di altre che potrebbero nascere”.

Per Daniele Giglioli, docente di Letterature comparate a Bergamo e osservatore dei temi dell’istruzione, è questa la verosimile deriva del sistema nel suo insieme: i forti tagli e il conseguente impoverimento dell’università pubblica potrebbe indurre molti, fra coloro che ne hanno la possibilità, a optare per l’istruzione terziaria privata nei prossimi anni. “Il modello dichiarato è quello dell’università Usa: pochi atenei di eccellenza e grande attrattiva, che svettano su una rete di università dequalificate, poco più che scuole di avviamento professionale”.

Oggi le università non statali in Italia per il ministero sono 28, di cui 11 telematiche, su un totale di 95 atenei. Ricevono in media, ogni anno, 3.532 euro di tasse per ogni iscritto. Il giro d’affari, su un totale di 95.250 iscritti nel 2010 (oltre il 5% della popolazione studentesca, senza includere i circa 17.000 delle telematiche), è di quasi 350 milioni all’anno di sole rette. Ma si tratta di un universo frastagliato: diverse università chiedono oltre 10mila euro a studente per i corsi di laurea più prestigiosi (vedi San Raffaele e Bocconi a Milano, ma anche Scienze Gastronomiche a Bra, o l’E-Campus, la elematica del Cepu, nel caso si preveda un cospicuo numero di ore col tutor).“Oggi il business delle università private in Italia non è molto sviluppato -dice l’economista Daniele Checchi-, anche perché sono pochi gli ambiti remunerativi, come quello economico o medico”. E del resto Giovanna Vertova, docente di Economia politica a Bergamo, si è accorta di come, fino a pochi anni fa, oltre metà del bilancio aggregato degli atenei privati fosse costituito da fondi pubblici, mentre poco più di un quarto provenisse dalle contribuzioni studentesche (rispettivamente 54% e 28% nel 2004, dati Miur 2007). In seguito il ministero ha modificato le voci nel proprio rapporto annuale, impedendo di fatto nuovi raffronti, ma l’attenzione dei governi nei confronti delle università private rimane evidente.

Come nel novembre scorso, quando -a seguito delle rimostranze del rettore della Cattolica di Milano Lorenzo Ornaghi per i tagli previsti per le università private- è stato inserito nella legge di stabilità un rifinanziamento da 25 milioni, che ha ripianato parte degli inevitabili tagli dei tre anni precedenti. Così, l’università privata continua a “fare impresa” con forti sussidi governativi, mentre quella pubblica si disarticola dentro le politiche di rigore.

C’è poi il capitolo delle università telematiche, ben 11 oggi in Italia (erano 4 nel 2006), nonostante lo scarso numero di iscritti. Benché questi istituti non abbiano obbligo di fare ricerca e si reggano in gran parte su personale a contratto e in proporzioni del tutto insufficienti rispetto agli studenti (in deroga ai requisiti minimi che le altre università devono rispettare), il titolo di laurea che rilasciano ha valore legale. E nell’ottobre scorso un decreto delministro Gelmini è arrivato a consentire agli atenei telematici di chiedere l’equiparazione totale alle università private, potendo così attingere risorse dallo stesso fondo riservato ad atenei di ben altra levatura, come Luiss o Bocconi.

Ribattezzata la “riforma Cepu” -perché avvantaggerebbe innanzitutto Francesco Polidori e il suo E-Campus, l’unico ateneo alla cui inaugurazione dell’anno accademico abbiano presenziato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro Gelmini nel 2010-, questa norma è l’ultima di una serie che dimostra le premure della politica nei confronti del sistema delle telematiche, che persino il rapporto del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario (Cnvsu) del 2009 definiva “instabile” e attraversato da “forti criticità”. Ma un ultimo spunto possibile sul presente e il futuro dell’istruzione universitaria privata in Italia viene dalla storia della Nuova accademia di belle arti (Naba) di Milano. Una vicenda che ci riporta negli Stati Uniti. La Naba nasce nel 1980 con l’intento di svecchiare alcune tradizioni delle accademie artistiche e rilascia titoli di studio aventi valore legale. Oggi ha circa 1.800 studenti e ogni anno accademico della triennale costa dai 6.900 ai 12mila euro, a seconda della fascia di reddito. A fine 2009 la famiglia Cabassi (i vecchi proprietari attraverso Bastogi spa) hanno venduto l’istituto al consorzio americano Laureate Education per 22 milioni di euro. Laureate rappresenta un network internazionale di oltre 100 università che, fra Americhe, Europa e Asia, raccolgono oltre mezzo milione di studenti. Si tratta di un colosso dell’istruzione universitaria “for profit”, che vede fra gli investitori alcuni fondi di rivate equity, come KKR e Citi, e magnati come George Soros e Paul Allen. Non siamo ancora all’americanizzazione del sistema universitario italiano, né alla finanziarizzazione dell’istruzione superiore, ma, si direbbe, miliardari e fondi d’investimento apprezzano.

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