Accantonare sbrigativamente il dibattito sull’opportunità di introdurre una imposta patrimoniale è un lusso che l’Italia non si può permettere. Non se lo può permettere in rapporto alla cruciale rilevanza dei due problemi nei quali si dibatte non da anni, ma da decenni: l’immane stock di debito pubblico e la modestia del ritmo di crescita della sua economia. I due problemi sono tra loro strettamente correlati. La crisi globale degli ultimi due anni, infatti, ha accresciuto l’evidenza di questa correlazione fino a configurarla come una trappola nella quale il Paese si dibatte: la sostenibilità del debito non migliora perché l’economia non cresce; e l’economia non cresce perché la sostenibilità del debito non migliora. Come si sa, alla fine di quest’anno il debito pubblico raggiungerà il 120% del Pil. Per quanto abnorme, questo livello è il risultato di una azione di contenimento della quale il governo mena gran vanto malgrado sia costata non solo la rinuncia ad ogni significativa politica di promozione dello sviluppo, ma addirittura una azione restrittiva svolta attraverso tagli di spesa indiscriminati. Anche questa, a ben vedere, si configura come una trappola della quale non si vede l’uscita perché una siffatta politica, tutta tesa al contenimento dei saldi puntuali, mina la principale garanzia che un debitore dovrebbe dare, ossia quella di prospettare la capacità di generare risorse che consentano il pagamento degli interessi ed il rimborso a scadenza.
Strategie per avviare a soluzione questi problemi non se ne vedono se non quella dell’attesa messianica di una ripresa globale. La inconsistenza di questa strategia emerge dalla circostanza che, quand’anche questa ripresa si accentuasse e si consolidasse, l’economia italiana non appare in grado di approfittarne a motivo dei suoi ben noti deficit di competitività (dimensione delle imprese, innovazione, ricerca, e via dicendo). Posto così il problema, e prima di giungere all’ipotesi di una imposizione sui patrimoni, sono opportune alcune considerazioni di scenario sia sulla questione del debito che su quello della incapacità di crescere.
Il debito.
Quando si tratta del debito non basta partire dalla sua mole; è opportuna, se non doverosa, anche una considerazione qualitativa inerente al processo attraverso il quale si è formato e alla natura del credito che ne costituisce la immagine speculare. Ebbene, la circostanza che l’Italia si distingue per una ricchezza patrimoniale delle famiglie particolarmente elevata non è un caso né può essere spiegata soltanto con il frutto di una grande propensione al risparmio come vuol far credere la sbrigativa agiografia corrente. È il frutto, piuttosto, di un periodo ormai lontano, nientemeno che di una cinquantina di anni fa. Fu allora che un indebitamento non dissimile da quello degli altri Paesi europei cominciò a crescere per il cumulo di disavanzi dovuti ad un forte aumento della spesa corrente compensato solo in piccola parte da un timido aumento delle entrate. Il mondo – va ricordato – era ancora rigorosamente bipolare ed il nostro sistema politico-istituzionale conseguentemente bloccato: la forma era quella delle grandi democrazie occidentali, con una maggioranza ed una minoranza, ma l’equilibrio geopolitico imponeva che quest’ultima rimanesse stabilmente tale per il motivo che era costituita da partiti di ispirazione marxista tra i quali, soprattutto, il Partito Comunista. Di conseguenza, salì la spesa per il welfare, al fine di assicurare la tenuta sociale, ma non fu proporzionalmente aumentata la pressione fiscale, per non compromettere il consenso elettorale attribuito alla maggioranza dalla borghesia, dagli imprenditori, dai lavoratori autonomi, da larga parte del mondo contadino.
Visto dal lato dei percettori di redditi, dunque, lo scambio era il seguente: poche tasse, da un lato, alla condizione che la spesa non coperta dal prelievo fiscale fosse finanziata, dall’altro, con la sottoscrizione di titoli pubblici. In un sistema finanziario chiuso come quello di allora era sufficiente manovrare opportunamente i tassi di interesse per assicurare il funzionamento di questo circuito. Tassi, comunque, vieppiù elevati che venivano capitalizzati come debito pubblico aggiuntivo, dal lato del passivo, e, dal lato dell’attivo, come ricchezza finanziaria delle famiglie il cui reddito consentiva di risparmiare per poter sottoscrivere i titoli dello Stato.
Questo processo ha connotato soprattutto gli anni ’70. Negli anni ’80 e fino ai primi anni ’90, poi, il debito è letteralmente esploso, ma a causa soprattutto dell’aumento dei tassi di interesse che lo moltiplicò in pochi anni. E va da sé che, quanto più andava crescendo l’onere sugli interessi, tanto più cresceva la ricchezza finanziaria delle famiglie che, direttamente o indirettamente, possedevano i titoli.
A guarnire questa torta con una corposa ciliegina provvide infine, negli anni ’90, la manovra di armonizzazione della politica monetaria italiana a quella dei Paesi che si apprestavano a formare l’Unione monetaria. In due o tre anni i tassi di mercato italiani si ridussero ad un terzo con conseguente moltiplicazione della ricchezza finanziaria delle famiglie che a quel tempo era ancora costituita prevalentemente da titoli di Stato. Chi possedeva Buoni del Tesoro a tasso fisso con scadenze medio-lunghe beneficiò, senza il benché minimo merito, di un aumento del loro valore di mercato anche di due e persino di tre volte.
Non ha alcuna rilevanza il fatto che negli anni successivi quella ricchezza abbia assunto forme diverse: titoli esteri, immobili, o altro. Ciò che rileva è che larga parte di essa si è formata per motivi che nulla hanno a che fare con meriti soggettivi che vanno riconosciuti e rispettati: laboriosità, ingegno, capacità imprenditoriali, previdenza, studio, risparmio. Di conseguenza, il prelievo di una quota di questa ricchezza, che tanto massicciamente pesa sulle possibilità di crescita del nostro Paese, si può oggi configurare come la riappropriazione da parte dello Stato, e dunque dell’intera collettività nazionale, di una piccola parte di un qualcosa di molto simile ad una sopravvenienza attiva che le famiglie si sono ritrovata iscritta nel loro bilancio patrimoniale; ovvero come la chiusura di un conto rimasto fin troppo a lungo aperto con quanti, magari in buona fede, magari senza neppure accorgersene, hanno messo le mani nelle tasche dello Stato fino a fare dell’Italia un Paese con tanta gente benestante ed un settore pubblico costantemente in braghe di tela. Questa storia del debito pubblico non è irrilevante quando si discetta su una eventuale imposizione patrimoniale.
La crescita
Per qualche considerazione sulla crescita non occorre risalire tanto indietro negli anni. Basta richiamare la svolta epocale determinata dalla partecipazione dell’Italia alla moneta unica europea. Ai fini che qui interessano, la sostituzione della lira con l’euro ha implicato la transizione da una politica monetaria indulgente nei confronti dell’inflazione, in quanto disposta a somministrare periodicamente alla competitività delle nostre produzioni una svalutazione della lira come ricostituente della competitività via via persa. La svolta avrebbe dovuto comportare anche una conversione di 180 gradi delle strategie produttive passando da una competitività impostata sul prezzo ad una basata sulla qualità, sulla esclusività, sulla innovazione, sui contenuti tecnologici. Per motivi soprattutto di dimensione media delle imprese, questa transizione è stata affrontata con successo solo da una piccola parte di esse. La maggior parte è rimasta ancorata ad una mentalità che la globalizzazione, con la conseguente concorrenza dei Paesi emergenti, ha reso antistorica e, perciò, sempre più insostenibile. Nel tentativo di reggere il mercato, complice la politica per evidenti motivi elettorali, la soluzione è stata quella di una sempre più severa compressione dei costi della quale ha fatto le spese soprattutto la remunerazione del lavoro, sia direttamente con la cosiddetta moderazione salariale, sia indirettamente con la introduzione dei contratti atipici dei quali il sistema produttivo ha usato quasi esclusivamente per poter impiegare manodopera a condizioni economiche e normative inferiori a quelle stabilite dai contratti. Così – come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia – “i salari di ingresso dei giovani sul mercato del lavoro sono fermi, in termini reali, da oltre un decennio su livelli al disotto di quelli degli anni ‘80”. Ciò nondimeno, “il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 30%”. C’è bisogno di rilevare come non possa essere casuale che l’origine di questa situazione coincida con la nascita dell’Unione monetaria e la conseguente stabilizzazione del cambio?
Il risultato di questa miope politica è stato quello di erodere il potere d’acquisto della maggior parte della popolazione realizzando così una ulteriore trappola: la domanda interna ristagna, l’economia non cresce perché difetta di competitività, per accrescerla si comprimono i costi, ma comprimendo i costi si deprime ancor più la domanda interna. E la spirale del declino continua ad avvitarsi giù per un pozzo del quale non si vede ancora il fondo (vedi anche Salari e produttività, il legame funesto).
L’ipotesi patrimoniale
Se quanto considerato finora può essere anche parzialmente condiviso, l’ipotesi della introduzione di una imposizione patrimoniale non può essere aprioristicamente scartata, tantomeno se per motivi di mera propaganda politica, come ha fatto il centro-destra, o di grossolana competizione, come ha fatto gran parte del centro-sinistra.
L’ipotesi va approfondita non col fine di abbattere il debito, poiché in questo caso per ottenere un risultato significativo occorrerebbe agire con una mano talmente dura da determinare – come è stato da più parti rilevato – effetti pesanti, forse anche imprevedibili, e probabilmente incontrollabili. L’ipotesi merita di essere approfondita come tassazione dei patrimoni per alleggerire a parità di entrate, o se preferite di pressione fiscale, la tassazione dei redditi. L’obiettivo non è quello di ridurre lo stock di debito, ma di ridurre la sua dimensione in termini di Pil e, quindi, di accrescerne per questa via l’affidabilità e la sostenibilità. In altre parole, l’obiettivo è quello di dare impulso alla crescita e, con essa, all’equità distributiva, al perseguimento della evasione, e alla fin dei conti ad una reale progressività secondo il dettato costituzionale. Beninteso, con alcune avvertenze anch’esse suscettibili di approfondimento.
Prima avvertenza: i redditi da alleggerire sono quelli da lavoro e da pensione con una opportuna progressività che offra benefici tanto più tangibili quanto più l’imponibile è basso. Lo scopo, al dilà delle ragioni della perequazione distributiva, è quello di rianimare la domanda interna; e tutti i modelli econometrici, oltre all’evidenza empirica, dicono che la disponibilità di un potere d’acquisto aggiuntivo si traduce tanto più in domanda di beni e servizi quanto più integra un potere d’acquisto basso. Non sembra consigliabile, invece, detassare i redditi delle attività finanziarie ed i redditi delle imprese. Le attività finanziarie, si sa, sono già fin troppo detassate; semmai c’è un problema di elevare la loro tassazione almeno al livello medio degli altri Paesi europei. Non sembra opportuno, per altro, detassate i redditi da impresa perché ciò contrasterebbe con una politica che finalmente induca le imprese ad accrescere la competitività attraverso ricerca ed innovazione, invertendo la politica seguita finora di assisterle nella ricerca della compressione dei costi che – come si è detto sopra – è antistorica e, in tempi di globalizzazione, non può che comprimere retribuzioni e condizioni di vita e di lavoro verso i livelli dei Paesi a basso costo.
Seconda avvertenza. L’imposizione sui patrimoni non è solo un possibile strumento di prelievo fiscale, ma anche – e talvolta soprattutto – uno strumento della politica economica e industriale. Può essere considerata, pertanto, non solo per sostituire le entrate che verrebbero meno con una detassazione dei redditi da lavoro e da pensione, ma anche per indurre una maggiore fluidità nella circolazione e nella allocazione della ricchezza. Una fluidità che sarebbe auspicabile in relazione sia al patrimonio immobiliare, sia soprattutto alla proprietà delle imprese, dove (specie dopo la nefasta abolizione della imposta di successione) una tassazione patrimoniale potrebbe essere congegnata in modo da allentare i vincoli tra le imprese e le famiglie proprietarie e così favorire allocazioni più efficienti della proprietà stessa, anche con accorpamenti ed aggregazioni finalizzati all’innalzamento della dimensione media delle imprese.
Terza avvertenza. Una patrimoniale così come viene qui tratteggiata è coerente con l’obiettivo enunciato dal ministro Tremonti di spostare la tassazione “dai redditi alle cose”. Un obiettivo condivisibile non solo in termini di contrasto all’evasione, essendo evidente che “le cose” possono sfuggire o occultarsi più difficilmente dei redditi, ma anche perché è del tutto iniquo che vengano tassati i redditi da lavoro più delle rendite finanziarie; la panda dell’operaio che ne usa per andare in fabbrica e non gli yacht, gli ormeggi per le imbarcazioni da diporto o le abitazioni anche di grande metratura magari situate nei più esclusivi quartieri residenziali. Ed è socialmente dirompente, come il governatore della Banca d’Italia ha rilevato, che la categoria dei giovani, anche occupati, dipenda dal reddito dei genitori quando lo stesso beneficio, in chiave di solidarietà intergenerazionale, potrebbe venire loro da una detassazione delle retribuzioni finanziata con una patrimoniale sulla ricchezza posseduta prevalentemente dalla categoria dei genitori.
Quarta ed ultima avvertenza. Non si dica che la ricchezza, finanziaria e non, scapperebbe all’estero o si camufferebbe da estero vestita. Questo avviene già ora in una misura che è difficile immaginare inferiore a quella che si registrerebbe nel caso di una patrimoniale che venisse applicata – con progressività, s’intende – su tutti i beni mobili e immobili che possono essere raggiunti per il solo fatto che esistono, si vedono o sono individuabili. Problemi tecnici e politici, certo, non mancano; ma perché: forse ora non ce ne sono?