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Copenhagen secondo la Cina

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Molti giornali cinesi ieri titolavano su “raggiunto l’accordo sul clima a Copenhagen”. Sopra mettevano la foto del premier Wen Jiabao di ritorno dalla Danimarca che dichiarava “la Cina ha compiuto sforzi senza risparmiarsi alla conferenza dell’Onu”.

In realtà negli articoli traspariva l’imbarazzo e le difficoltà che la Cina ha dovuto affrontare a Copenhagen al di là delle proprie aspettative.

 

Pechino era infatti convinta di riuscire ad ottenere un grande successo. Aveva da una parte preso le misure di un accordo con l’America e dall’altra parte aveva costruito un blocco di intesa con alcuni dei maggiori paesi in via di sviluppo, Sudafrica, Brasile e India.

 

La buccia di banana su cui sono scivolati all’ultimo minuto è stata la questione delle verifiche. I paesi sviluppati erano disposti a finanziare i trasferimenti tecnologici necessari per tagliare le emissioni, ma volevano anche potere verificare il taglio effettivo di queste emissioni.

 

La questione delle verifiche va direttamente al cuore di un problema spinoso che già esiste tra Cina e Stati uniti.

 

Il ministero dell’ambiente cinese emette un suo bollettino sull’aria a Pechino in base a suoi rilevamenti. Ma rilevamenti sull’aria della capitale cinese sono condotti anche dall’ambasciata americana che invia un twitter (spesso bloccato a Pechino) con i propri dati.

 

Già oggi i due dati concidono solo raramente. C’è differenza sul tipo di rilevamenti compiuti, sulle particelle osservate, sugli orari, i posti ecc. Il risultato è che anche in molte giornate limpide e serene, secondo Pechino, per l’ambasciata statunitense c’è un inquinamento superiore a quello delle peggiori giornate nelle metropoli Usa.

 

Se questo avviene oggi, senza alcun accordo, quando ci fosse da controllare tagli di inquinamento collegati ad aiuti monetari le differenze tra Cina e Stati uniti potrebbero esplodere in polemiche ferocissime e pubbliche.

 

D’altro canto il governo cinese, oggi maggiore inquinatore mondiale per gas ad effetto serra, la guerra alle emissioni la combatte su molti fronti.

 

Da anni Pechino si propone di lanciare un “Prodotto interno lordo verde” su base locale e poi nazionale che serva a controbilanciare e mettere in contesto i dati economici puri. In realtà ancora oggi non è riuscita a fare passare questo programma per la forte opposizione di governi locali sostenuti dalle industrie del posto.

 

Ciò che succede è che se oggi parametri anti-inquinamento sono applicati rigorosamente molte fabbriche semplicemente chiudono, cosa che significa meno introiti fiscali per le province e soprattutto meno posti di lavoro per i contadini che lasciano le campagne in cerca di fortuna in città.

 

La proposta con cui Pechino era andata a Copenhagen era parte di una complicata operazione di equilibrio. Il governo centrale voleva un’arma per mettere pressione ai governi locali, con il bastone delle sanzioni internazionali e la carota degli aiuti finanziari e le nuove tecnologie di risparmio energetico. Certo ciò non avrebbe comportato il rispetto teutonico delle norme, ma Copenhagen sarebbe stata l’arma di un complesso gioco al gatto e il topo tra centro e periferia, con cui progressivamente la situazione sarebbe migliorata.

 

È impossibile pensare, per quello che è la Cina, che tale complessa operazione potesse avvenire sotto l’occhio del mondo e dell’America, tutti attenti a fare le pulci ogni giorno a Pechino e i suoi governi locali.

 

D’altro canto, e questa è stato l’elemento non previsto di cui oggi la Cina si rende conto, era anche impossibile pensare che l’America si impegnasse in un controverso sforzo finanziario, da pagare con i soldi del contribuente, senza poi avere verifiche. Per Washington c’era il rischio opposto di essere lapidata dai giornali che avrebbero scritto di come i soldi degli aiuti Usa contro l’inquinamento erano sprecati o rubati nelle campagne cinesi.

 

Questo scivolone ne ha portato un altro. La Cina prima chiedeva un ampio consenso, forte, del sostegno militante dei suoi sodali (Sudafrica, Brasile e India), poi, quando tutto stava franando, ha abbandonato l’idea di una ampia intesa per precipitarsi a rappezzare una bozza con gli Stati uniti. Così non ha fatto un favore agli Usa, che si sono sentiti snobbati per un po’ nella conferenza, pur reduci dal buon vertice di Obama a Pechino, né gli altri paesi in via di sviluppo hanno gradito il dietrofront all’ultimo istante.

 

Il risultato è zoppo su molti fronti, ambientali ma anche politici, e Pechino se ne rende conto. Ora probabilmente, come è nella tradizione cinese, comincerà una fase di ripensamento profondo su tattiche e strategie di ambiente e politica dell’ambiente. Da questi ripensamenti dipenderà in sostanza tutta la politia ambientale del mondo.

 

Tratto da www.lastampa.it
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