Sorpresa, è ricomparsa la produttività. Nel pieno della recessione più grave dal 1929, con il Pil che precipita e con l'industria che chiede fondi, l'Istat rivede le statistiche degli anni scorsi e annuncia: non andava poi così male. Anzi, l'industria italiana che è entrata in crisi era appena uscita da un piccolo boom. Ma il miracolo (retroattivo) accende i riflettori sui grandi esclusi dalla torta degli scorsi anni: gli operai. I quali scoprono adesso che in fabbrica macinavano produttività e profitti mentre le loro tasche non se ne accorgevano affatto.
L'industria che tirava
La revisione dei dati Istat riguarda gli ultimi cinque anni (vedi grafico), ma la vera novità è sul biennio 2006-2007: anni nei quali i nuovi conti dicono che il valore aggiunto dell'industria è cresciuto, rispettivamente, del 4,4 e del 5,9 per cento, sensibilmente di più di quanto dicevano i vecchi dati (più 2,2 e più 4,1 per cento). Poiché nel frattempo non sono intervenute novità statistiche sul fronte degli occupati, ne consegue un balzo in avanti della produttività del lavoro, la misura del valore che esce dalle mani di ogni singolo operaio: che veniva data per ferma a zero o addirittura negativa, invece saliva. Che cosa vuol dire tutto questo? Che cosa è davvero successo nell'industria italiana? E perché la statistica ufficiale se ne è accorta così tardi?
"Se io smetto di fabbricare scarpe di plastica in serie, e mi metto a fare scarpe in cuoio cucite a mano, produrrò meno scarpe e avrò bisogno di più operai: se guardo solo al numero delle scarpe, verrà fuori che si è ridotta la produzione, ma se vado a vedere il prezzo finale di ogni paio di scarpe le cose cambiano": Innocenzo Cipolletta, economista e presidente delle Fs, è tra coloro che al declino della produttività non hanno mai creduto. E per spiegare cos'è successo ricorre all'apologo delle scarpe: "L'industria italiana si è spostata verso produzioni di fascia più alta, e questo nelle statistiche generali non si vede, ma era chiarissimo da altri indicatori: il valore delle esportazioni, l'occupazione, i profitti delle imprese". Questo non vuol dire che tutto andava bene per tutti: anzi, secondo l'economista dell'Isae Sergio de Nardis c'è stata una "distruzione creativa", in cui ha vinto chi ha innovato di più e ha sfruttato meglio la domanda mondiale. Tra i vincitori, secondo le analisi prevalenti, ci sono imprese medie e grandi, di settori tradizionali reinventati con un nuovo mix di produzione. E certamente, dice l'economista del lavoro Riccardo Leoni, "ci sono le imprese che hanno investito di più nel marchio e hanno sfruttato al meglio i mercati emergenti". Insomma, chi è riuscito a piazzare prodotti di lusso o medio-alti del made in Italy agli arricchiti della globalizzazione. Ma in Italia, invece, chi si è arricchito? I dati parlano chiaro, dice Leoni: "C'è stata una forte redistribuzione verso i profitti". Il piccolo miracolo retroattivo non è sceso nelle tasche degli operai, a guardare i dati della stessa contabilità Istat su retribuzioni e costo del lavoro. Luca Paolazzi, capo dell'ufficio studi della Confindustria, contesta questa lettura affermando che bisogna guardare l'andamento delle retribuzioni di fatto. Ma i nuovi dati gettano sale sulle ferite, e danno argomenti a una Cgil che prepara la sua manifestazione nazionale del 4 aprile anche a suon di numeri: come quelli del IV Rapporto sui salari nel quale l'Ires, il suo centro studi, fa i conti degli ultimi quindici anni e denuncia il fatto che, dal '95 al 2007, i profitti delle grandi imprese sono saliti del 74,5 per cento mentre le retribuzioni sono aumentate appena del 5,5 per cento. Un quadro aggravato dai nuovi dati: "Una cosa è certa", dice Agostino Megale, segretario confederale della Cgil: "I salari dovevano crescere di più di quanto sono cresciuti. E la parte maggiore della crescita è andata in profitti e tasse".
Dai profitti al crollo
La rilettura dei dati Istat getta una nuova luce anche sull'oggi e mette carne sul fuoco dello scontro politico. Lo dice con chiarezza Cipolletta: "La produttività è andata tutta ai profitti? Questo ci conferma a posteriori quanto fosse sbagliata la scelta di Prodi di ridurre il cuneo fiscale: una manovra barocca, per la quale si sono dovute inventare nuove tasse e colpire altri settori, a sostegno di un'industria che allora non ne aveva tanto bisogno. Questi dati testimoniano della competitività dell'industria italiana. Che adesso ha bisogno di credito dalle banche. I soldi pubblici devono andare invece a sostenere il reddito di chi perde il lavoro, altrimenti sarà il disastro". Anche Francesco Daveri, economista della Bocconi, invita a considerare il fatto che "le imprese italiane sono entrate in questa crisi con una consistente scorta di liquidità. Anche se nel lungo periodo il problema della scarsa produttività resta, soprattutto nei servizi, è importante il fatto che adesso possiamo capire meglio cos'è successo e spiegare cose altrimenti incomprensibili". E per Paolazzi tutto ciò induce a guardare con un po' di ottimismo in più al presente: "C'è stata una trasformazione selettiva dell'industria italiana, questo ci dice ora che si può crescere anche se c'è la crisi".
Ma non si poteva dirlo prima, che stavamo meglio? E agli operai che per anni si sono sentiti dire che i loro salari erano bassi per colpa della scarsa produttività, chi glielo dice che adesso di recuperare quei soldi non se ne parla più perché c'è la crisi? E che, come dice il Berlusconi, devono anche lavorare di più? Paolazzi evita di dare la croce addosso all'Istat: "C'erano segnali della trasformazione in atto nell'industria: adesso abbiamo la misura della loro entità, che è più consistente del previsto. Ma è normale che si facciano revisioni delle statistiche, negli Stati Uniti le correggono di continuo". Eppure il problema era sul tappeto da tempo, e forse era dovuto al fatto che proprio i settori 'dinamici', protagonisti del piccolo boom degli anni scorsi, erano sottorappresentati dall'Istat; o che il valore della loro produzione, in gran parte venduta all'estero, sfuggiva alle rilevazioni. La Banca d'Italia l'aveva detto più volte anche nella sede ufficiale della Relazione annuale di Draghi.
Ora gli statistici dell'Istat si trincerano dietro la 'normale prassi': il quadro è più completo, dicono, perché abbiamo i conti definitivi della nostra rete di rilevazione. La statistica, aggiungono, segue standard tecnici internazionali, e così via. Fatto sta che il dilemma della produttività ricomparsa va ad aggiungersi a una serie di altri casi riguardanti l'Istat: dalla polemica sui prezzi dopo l'euro, all'ultima sulle retribuzioni nel 2008. "Fino a poco fa hanno tenuto fermo il sistema del 2000, sul peso relativo dei vari settori", dice Daveri: "Forse devono aggiornare più rapidamente i pesi dei vari settori, forse c'è un problema di costi. Fatto sta che vista da fuori la macchina dell'Istat, per noi utenti, è una black box. Abbiamo il diritto di chiedere che funzioni meglio". Magari prima del crash.