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Wikicrazia

02/03/2011

“È possibile costruire politiche pubbliche … facendo diventare l’azione di governo una specie di Wikipedia?”. La risposta che Alberto Cottica dà a questa domanda in “Wikicrazia” (Navarra Editore, 2010) è positiva, pure sottolineando egli con cautela che “le politiche Wiki non sono un sostituto del normale processo democratico; ne sono un’integrazione” (p. 197). “La proposta di questo libro – scrive Cottica – è [il rafforzamento] delle burocrazie pubbliche attraverso una cooperazione di maglia stretta con comunità interessate ai problemi che quelle burocrazie sono chiamate a gestire” (p. 165).
È utile questo contributo, che viene da una figura impegnata a costruire ponti fra il mondo dei “creativi” e costruttori/navigatori del Web e il mondo dei soggetti pubblici e privati che operano negli uffici di governo o nei territori materiali. È utile perché invita a ragionare sulle potenzialità del connubio fra i due mondi e perché può far compiere un passo in avanti alla riflessione sulle potenzialità della “rete” per le politiche pubbliche.
Ma cos’è il metodo Wiki? È, secondo Cottica, ispirandosi all’esperienza di Wikipedia, una mobilitazione di intelligenza collettiva che facilita il coordinamento, anche asincrono, fra individui più disparati, non precostituisce i soggetti partecipanti, ed è per sua natura aperto. È quindi un metodo che promuove il consenso su proposizioni ragionevoli, assicura il controllo reciproco che è requisito fondante dei processi di democrazia deliberativa, e mina continuamente le rendite di posizione. Rinvio al libro per l’argomentazione di questi punti, che a me paiono convincenti.
Chiariti i tratti del metodo, Cottica argomenta che esso è utilizzabile nel disegno e nell’attuazione delle politiche. Anche questa tesi appare in generale convincente.
Le politiche dovrebbero innanzitutto muovere dall’identificazione dei problemi da affrontare e degli obiettivi da conseguire sulla base delle preferenze e delle conoscenze dei beneficiari. Dovrebbero quindi prendere forma attraverso il confronto fra strumenti diversi che possano conseguire tali obiettivi e, una volta realizzato l’intervento, dovrebbero essere rinnovate sulla base di una valutazione dell’efficacia di quanto realizzato, con il coinvolgimento dei soggetti beneficiari. Di rado, assai di rado in Italia, è questo il modo in cui le politiche vengono realizzate. Eppure, processi deliberativi del tipo ora richiamato vanno diffondendosi in tutto il mondo, anche sotto la pressione di una crescente scarsità e di un crescente conflitto sulle risorse pubbliche. A questi processi, alla democrazia deliberativa, il saggio sostiene che il metodo Wiki può dare un impulso significativo.
A sostegno di questa tesi, Wikicrazia porta l’esame di numerosi esempi. E qui arrivano le mie osservazioni.
Nell’esame dei casi considerati balzano in primo luogo agli occhi due problemi: una mancata attenzione agli esiti finali degli esperimenti considerati; un ottimismo non motivato sull’inclusività dei processi presi in esame.
Nel presentare l’interessante esperienza di Visioni Urbane, realizzata da Cottica stesso con la Regione Basilicata, e nel descrivere l’esperienza di Fixmystreet (un sito dove i cittadini britannici segnalano i problemi osservati nelle aree pubbliche del proprio quartiere), come in altri esempi, a una ricca descrizione del processo non corrisponde un’informazione sui suoi esiti, sugli eventuali progressi nelle condizioni di vita dei cittadini indotti dagli esperimenti considerati. È un peccato al quale Cottica potrebbe certamente ovviare.
Quanto all’inclusività, il saggio riconosce i rischi derivanti dal digital divided tecnologico e accenna ai rischi del digital divided cognitivo, ma non vengono esplorate le conseguenze che l’esistenza di queste esclusioni potrebbe produrre una volta che il metodo Wiki diventasse uno strumento rilevante di disegno e attuazione delle politiche. Non viene discussa la deriva elitaria che ne potrebbe derivare. Che “molte più persone [abbiano] un’opinione informata sulle politiche pubbliche e si [sentano] qualificate a esprimerla” (p. 69), non è infatti una tendenza da assumere come inevitabile, ma può essere solo il risultato di un processo di mobilitazione, di forte attivismo civico, di aggregazioni non fluide fra cittadini accomunati da simili interessi, su cui vorremmo presto leggere di più.
La seconda osservazione riguarda il fatto che i casi descritti nel saggio appartengono in realtà a tipologie assai differenti. Una sola di esse sembra pienamente configurare un “metodo diverso di disegnare e attuare le politiche”.
La prima tipologia a cui sembra possibile riportare i casi considerati è quella delle reti dei creativi. In Visioni Urbane e nell’esperienza di Kublai – una rete per il confronto aperto su progetti innovativi costruita con il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo – il metodo Wiki serve a mettere in contatto gruppi di soggetti creativi (la maggioranza dei quali non supera, nel caso di Kublai, i 15 iscritti) che si scambiano informazioni e sviluppano assieme conoscenze. Lo strumento Wiki serve dunque a un obiettivo di indubbia utilità, ma relativamente tradizionale: favorire la cooperazione e la reciprocità tra soggetti innovativi, incentivati dalla natura ripetuta dell’interazione in un piccolo gruppo.
Assai diversi sono i casi del blog PSD – “organo ufficiale della Banca Mondiale, ma [dove] le operazioni espresse dagli autori non impegnano la Banca” (pag. 146) – , delle petizioni presentate agli uffici del Primo Ministro britannico o del già richiamato Fixmystreet. Qui il metodo Wiki è al servizio di due obiettivi, combinati in modo diverso a seconda dei casi: la comunicazione innovativa da parte dell’istituzione pubblica della propria missione ai cittadini; l’apertura di un canale di comunicazione con i cittadini per ricevere idee e proteste. Insomma, in entrambi casi l’obiettivo è chiaramente il consenso che viene ricercato attraverso i nuovi mezzi della rete. Se si tratti di cosa positiva o negativa è arduo stabilire in generale. E’ vero – come ci racconta Cottica con riguardo alla petizione britannica per il ritiro del piano di tariffazione delle strade – che la messa a disposizione dello strumento può diventare l’occasione di mobilitazione dei cittadini e di effettiva influenza sulle decisioni pubbliche. E’ vero, come scrive ancora Cottica, che “le autorità pubbliche che imboccano questa strada finiscono per fare cose diverse da quelle che si proponevano originariamente” (p. 200). Ma può anche avvenire che lo strumento si traduca in uno “sfogatoio” populista, o anche in un mezzo per “costruire artatamente consenso”. Anche qui sarebbe interessante capire quali sono le condizioni, quali caratteristiche istituzionali o delle organizzazioni sociali e di cittadinanza, possano fare la differenza fra l’uno e l’altro utilizzo.
La terza tipologia che si rintraccia nei casi esaminati consiste nel ricorso allo strumento Wiki per rendere l’informazione sull’azione pubblica – almeno sui nomi dei beneficiari e sull’entità dei benefici – nota senza difficoltà al pubblico intero, cioè per assicurare banche dati “aperte”. All’esperienza commentata nel saggio del sito farmsubsidy.org – che rende accessibile a tutti i dati sui trasferimenti della PAC (Politica Agricola Comunitaria) – si potrebbe aggiungere la più recente esperienza del sito aperto dal Financial Times con riferimento ai Fondi strutturali comunitari (ft.com/eu-funds).
La disponibilità di banche dati aperte non è evidentemente sufficiente ad assicurare politiche pubbliche migliori, ma ne è indubbiamente condizione necessaria. Quella di aprire le banche dati rendendo le informazioni effettivamente utilizzabili dai cittadini e da esperti valutatori è senza dubbio uno degli obiettivi primari da proporsi, specialmente in Italia, nel tentativo di promuovere la qualità delle politiche pubbliche. Ma non è ancora questo che corrisponde a quella “cooperazione di maglia stretta con comunità interessate” che Cottica mette al centro del suo saggio. Tale obiettivo ultimo viene infatti conseguito solo dalla quarta tipologia dei casi trattati da Wikicrazia.
Si tratta, sul modello, qui sì, di Wikipedia, dell’esperienza di Katrinalist – costruzione dal basso di un database di notizie sui sopravvissuti all’uragano di New Orleans del 29 agosto 2005 – e dell’esperienza di Peer-to-Patent – servizio per la valutazione collettiva e reciproca di domande di brevetto, lanciato come reazione al sovraccarico e alla conseguente caduta di qualità della struttura pubblica preposta allo scopo. In questi casi lo strumento Wiki consente effettivamente un salto radicale rispetto al passato. Permette di aggredire il problema della produzione di beni pubblici senza l’intervento dall’alto dello Stato. Proprio come avviene nei contributi volontari alla scrittura delle voci di Wikipedia, dà vita al contributo volontario dei singoli individui alla produzione di beni collettivi che saranno poi a disposizione di tutti. Supera, in qualche modo, il limite classico nella produzione di questi beni, ossia la tendenza di ogni individuo ad attendere che siano altri a provvedere, col risultato che il bene non viene affatto prodotto o viene sotto-prodotto.
Ma qual è il meccanismo che negli esempi del saggio produce la partecipazione dei singoli, il superamento della loro tendenza a non agire? Su questa domanda decisiva la spiegazione di Cottica non convince. Nel saggio si suggerisce infatti che sarebbe all’opera uno scambio: chi contribuisce “investe tempo e pensiero per dare alla comunità dei contenuti, e la comunità lo ricambia conferendogli status”. La popolarità così acquisita, la visibilità, sarebbero il movente che risolve il problema annoso della sottoproduzione di beni pubblici. Cottica ne deduce che “perché le politiche Wiki abbiano successo” occorre che i meccanismi per la produzione dello status siano “abilitati e ben lubrificati”, lasciando pienamente dispiegare la produzione di “superstar”. Insomma, le politiche Wiki sarebbero “ferocemente egualitarie nell’accesso, assolutamente elitarie nella selezione degli esiti” (p. 158).
Ho sollevato prima dubbi sull’inevitabilità del tratto ugualitario. Non ne so abbastanza per giudicare il tratto elitario. Ma comunque non credo che stia qui il valore aggiunto del metodo Wiki.
Credo francamente che nella partecipazione attiva a Wikipedia, come nel tempo dedicato a criticare una proposta di brevetto o a costruire un software che verrà poi regalato, sia all’opera quella dimensione non strettamente auto-centrica, di mero “innamoramento di sé stessi”, su cui secoli fa Adam Smith e oggi Amartya Sen ci invitano a riflettere. Accanto all’amore per se stessi ognuno di noi coltiva un amore per gli altri, una generosità, uno spirito pubblico – le parole sono del liberale Smith – almeno tanto importanti quanto il primo. Come ci spiegano i due filosofi, che siano l’una o l’altra delle dimensioni umane a prevalere non dipende dal DNA, ma dai contesti storici, istituzionali, nei quali ognuno di noi si viene a trovare.
Con riguardo al tema qui trattato, io credo che quei tre sentimenti che spingono a produrre beni collettivi di cui in larga misura altri si avvarranno dipendono da tre fattori: dal convincimento che il proprio contributo non sarà manipolato; dalla possibilità di osservare le conseguenze della propria azione (di nuovo per convincersi che essa non è inutile, non per essere “celebrato”); e, ovviamente, dal fatto che il costo di contribuire non sia eccessivamente alto (non confligga cioè oltremisura con il tempo dedicato a se stessi).
Bene, suggerisco che Internet e lo strumento Wiki che vi naviga possono influenzare nella stessa direzione tutti questi tre fattori. Sottraggono, grazie alla trasparenza, il contributo di ciascuno alla manipolazione per altri fini. Consentono di osservare l’utilità del proprio agire: è questa utilità ciò che emerge dal numero di scaricamenti di una data voce regalata a Wikipedia, non l’arricchimento del proprio status (o perlomeno non soprattutto, o perlomeno non per molti). Abbattono in maniera straordinaria il costo di aggiungere a quello che gli altri hanno già fatto un proprio contributo, magari anche solo correggendo la data sbagliata di una voce.
Se avessi anche un poco ragione, starebbe qui il salto, la rottura rispetto al passato. Starebbe qui la forza eversiva rispetto ai processi di mercatizzazione di ogni nostra azione, che il metodo Wiki avrebbe in potenza. Ma anche se avessi un poco ragione, solo la consapevolezza e l’approfondimento di tale potenza possono veramente far sì che il metodo Wiki divenga uno strumento innovativo nel disegno delle politiche pubbliche. Mi auguro che Alberto Cottica e altri che come lui sono impegnati in questo difficile compito di costruttori di ponti vogliano tornare su questo nodo.
Questo articolo è stato scritto il domenica, febbraio 27th, 2011 alle 13:20 ed è sotto la categoria Economia. Tu puoi seguire tutte le risposte di quest'aricolo attraverso l' RSS 2.0 feed.

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