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E' ufficiale: l'austerità fa male

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Potrebbe sembrare una riedizione dell'antica disputa sull'uovo e la gallina (chi è nato prima?) trasposta su temi economici, il debito pubblico e la crescita. Ma qui in ballo ci sono i destini di milioni di persone, la cui qualità della vita dipende in non piccola misura dalle politiche conseguenti all'una o all'altra posizione. Ora il dibattito si arricchisce di un nuovo saggio, di David Rosnick, che dovrebbe dare il colpo di grazia ai teorici dell'austerity.

La polemica parte da uno studio di Carmen Reinhart e Kennet Rogoff (i cosiddetti R&R) che, esaminando i dati di una serie di paesi dal 1847 al 2011, hanno affermato che un rapporto debito-Pil superiore al 90 per cento ha l'effetto di frenare la crescita. La tesi è servita come base teorica ai cultori dell'austerità: per superare la crisi (hanno detto) bisogna ridurre il debito pubblico, altrimenti la crescita non torna. Ma altri economisti non meno autorevoli, con alla testa Paul Krugman, hanno duramente contestato questa teoria.

Quando poi si è scoperto che nello studio c'era un errore materiale e alcune omissioni la polemica si è fatta incandescente e si è addirittura arrivati alle parole grosse.

Krugman aveva tra l'altro accusato R&R di non aver reso pubblici i dati su cui avevano lavorato e la Reinhart li ha allora pubblicati. Proprio lavorando su quei dati Rosnick, economista del Cepr, un centro di ricerca indipendente che annovera nel comitato scientifico premi Nobel come Robert Solow e Joseph Stiglitz, ha esaminato la crescita reale del Pil e l'andamento del debito in quattro paesi con debiti tra i più alti del mondo: Giappone, Grecia, Italia e Belgio.

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