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Un voto per i beni comuni

28/04/2011

Il piemontese Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica, sosteneva che l’economia dovrebbe essere la “scienza dei punti critici”. Ovvero la capacità di intercettare nell’evoluzione di un fenomeno il suo “punto di non ritorno”, quello oltre il quale non si può più intervenire (Lezioni di politica sociale, 1944).

 

Accade ad esempio coll’aumentare dei consumi delle risorse del Pianeta: quando ci si accorge che sono divenute scarse, scatta la corsa ad accaparrarsi quelle rimaste, col conseguente superamento della soglia limite. Non necessariamente è un effetto intenzionale. Succede. E l’economia dovrebbe prevenirlo.
Come ci spiega il professor Luigino Bruni nel nostro dossier dedicato ai referendum, questo è tipico dei “beni comuni”. O meglio, questa è la loro tragedia (per usare la celebre espressione dello studioso Garrett James Hardin).

I beni comuni -l’acqua, il suolo- sono forse al loro “punto critico”. Quel che è certo, è che oggi sono -soprattutto in Italia- al centro di un profondo cambiamento sociale.
Il riconoscimento dell’esistenza dei beni comuni, della necessità di preservarli, e la scoperta che dopo tanti anni di consumismo individualista forse abbiamo bisogno di un’economia del noi (è il titolo del bel libro di Roberta Carlini, per Laterza), è un vero e proprio terremoto per l’immagine che ci siamo sempre fatti della società in cui viviamo.
Finora questo simulacro ci ha fatto credere che il mercato fosse in grado di garantire libertà di scelta e benessere. In realtà, il mercato oggi non è libero, ma controllato da chi fa di tutto per impedire di scegliere, annullando l’alternativa.
Il sistema economico teme il confronto. Sa che non sceglieremmo mai di stare in coda in tangenziale, in un iper affollato, in una città inquinata, di avere un lavoro precario, se avessimo possibilità di scegliere. Per questo motivo, il sistema mente. Mentre la politica, cui chiediamo risposte, fermezza, responsabilità, latita. Non si presenta agli appuntamenti. Parla di modernità quando invece ci riporta al Medioevo, quello dei latifondi, dei signorotti, dei rapporti di lavoro subalterni.

Allora, in questi tempi in cui la menzogna, spudorata, è al potere, il vero gesto rivoluzionario è dire la verità (un po’ come nella filiera corta: nel rapporto diretto tra consumatore e produttore c’è solo la verità dei prodotti, contro la finzione del mercato fatto di marketing e packaging).

Raccontare la verità è quello che cerchiamo di fare su queste pagine, più o meno ogni mese, nella più totale indipendenza. Una scommessa che nel 2010 è stata vincente. Un risultato frutto del lavoro di tutti, ma che non sarebbe stato possibile senza il fondamentale apporto di Emilio Novati, uno dei fondatori della nostra rivista, della quale fino al mese scorso è stato presidente.
A lui e agli altri consiglieri uscenti -Stefano Magnoni, Giorgio Dal Fiume, Francesco Bucci e Alessandro Franceschini- vanno i nostri doverosi -e commossi- ringraziamenti. È per merito dell’impegno e dell’intelligenza di persone come Emilio e gli altri che avremo sempre un’alternativa.

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