Una Germania miope che impone le regole ma senza una prospettiva futura, un governo che vende in saldo il patrimonio pubblico, mentre nessuno si cura dell'industria del nostro paese. Ci sono alternative? Certo che sì, richiedono però la capacità di guardare oltre il brevissimo periodo.
"Liquidate il lavoro, liquidate gli stocks, liquidate gli agricoltori, liquidate gli immobili …ripulirà il sistema dal marciume”[1]: questi i consigli di Andrew Mellon, segretario al Tesoro, al presidente Herbert Hoover per uscire dalla grande depressione degli anni Trenta, meritandosi giustamente l’impopolarità fra i contemporanei e il discredito dei posteri. La storia si ripete.
Constatata ormai l’inefficacia delle politiche di austerità nel ridurre il disavanzo e frenare la speculazione, non è rimasta che la vecchia ricetta Mellon: ridurre direttamente il debito, nel modo più tradizionale di ogni dinastia decaduta, vendendo i gioielli di famiglia.
Le proposte sono le più varie, da quelle più drastiche – riduzione di 400 miliardi in 5 anni attraverso l’alienazione di immobili e altre proprietà a un fondo privato – ad altre più graduali e articolate. Tutti questi progetti hanno però un difetto comune: presuppongono l’esistenza di un compratore a un prezzo “giusto”. Qui sta infatti la difficoltà principale: i tempi di crisi non sono certamente il momento migliore per buttare sul mercato una quantità rilevante di attività, soprattutto se il venditore ha l’acqua alla gola. Data anche la dimensione dei singoli lotti di vendita, l’intera operazione potrebbe risultare nella liquidazione di pezzi di proprietà dello stato a prezzi da saldo a chi può permettersi di comprarli, prospettandosi dunque come una imposta patrimoniale negativa e regressiva. Tanto più che, poiché i beni patrimoniali possono essere venduti una sola volta, si riduce il valore complessivo delle attività a garanzia della massa rimanente del debito che rimane sulle spalle dei contribuenti[2]. Vi è infine il problema dell’opportunità , ai fini della ripresa della crescita e della sostenibilità di lungo periodo, di vendere ai privati imprese pubbliche di rilevanza strategica per il processo di innovazione del paese. Soprattutto in una fase in cui le difficoltà finanziarie delle imprese italiane, provocata dalle difficoltà di ottenere il credito, le rende facile preda di investitori stranieri[3]. Non si tratta di temere che, se privatizzate, qualcuno smonti i pali dell'alta tensione, i tubi del gas o gli sportelli postali, e li porti in Cina, come hanno scritto in tono irridente Alesina e Giavazzi[4], ma più semplicemente, nelle parole dello stesso ministro Passera, “non sempre il solo privato garantisce questa visione di sistema e, in taluni casi, un impegno pubblico – eventualmente associato al mercato – può garantire in maniera più efficace investimenti, apertura di mercato e interesse nazionale”[5] (il riconoscimento di questo ruolo ha indotto a fissare delle “golden share”, cioè un valore minimo di controllo pubblico di imprese ritenute strategiche).