Di recente Obama ha, senza mezzi termini, affermato che la disuguaglianza economica costituisce la «questione decisiva del nostro tempo». In un lungo articolo, pubblicato a ottobre sull’inserto domenicale del Corriere della Sera, il presidente Letta ha scritto: «La disuguaglianza sgretola la società perché la fa marcire al proprio interno … minando alla base sia la democrazia sia il mercato».
Letta e Obama non sono i soli uomini politici con grandi responsabilità ad aver parlato negli ultimi mesi della disuguaglianza con toni accorati. Queste dichiarazioni autorizzano a pensare che nei piani più alti della politica, o almeno in alcuni di essi, si è fatta largo la consapevolezza che la disuguaglianza – non quella astratta e indefinita di cui spesso vanamente si discute, ma quella concreta di questi anni, con la sua altezza e con il suo carico di poveri e di ricchi, spesso tali per tutt’altro che i loro meriti o demeriti – sia non un problema marginale, ingigantito da qualche eccentrico che ha a cuore la giustizia sociale, ma un ostacolo strutturale in grado di impedire il buon funzionamento dell’economia e della società.
UN IMPORTANTE FATTO NUOVO
Se così fosse, saremmo di fronte a un importante fatto nuovo dell’anno che si chiude. In realtà, grazie a numerosi studi, oggi conosciamo molto meglio la disuguaglianza del nostro tempo e le sue probabili conseguenze; sappiamo, in particolare, quanto deboli siano due idee «forti» – in verità da molti già considerate deboli – che hanno a lungo alimentato la diffusa convinzione che né l’economia né la società avrebbero troppo sofferto della disuguaglianza dei redditi (che va distinta da quella della ricchezza). Per la prima idea, la disuguaglianza favorisce la crescita; per la seconda ciò che conta davvero per il buon funzionamento della società non è la disuguaglianza ma la mobilità sociale – cioè non quanto il ricco guadagna più del povero ma se il ricco è figlio di un ricco piuttosto che di un povero – e l’ipotesi era che disuguaglianza e mobilità fossero tra loro indipendenti.
La disuguaglianza dei nostri tempi è decisamente eversiva rispetto a queste idee: invece che favorire la crescita economica, l’ha intralciata frenando la dinamica della domanda e, quindi, la capacità di utilizzare appieno il potenziale produttivo. Essa ha contribuito al manifestarsi della crisi e al suo perdurare. Inoltre, è oramai documentato che tra alta disuguaglianza e bassa mobilità vi è un intreccio perverso invece della supposta indipendenza. In quell’intreccio sono chiaramente intrappolati molti Paesi e soprattutto il nostro e gli Stati Uniti, tanto disuguali e tanto immobili.
Per far seguire azioni concrete alla consapevolezza occorre porsi almeno due quesiti. Il primo è ovvio: quali sono le possibili soluzioni? Il secondo è un po’ meno ovvio ma di importanza cruciale: vi sono soluzioni efficaci che non richiedono una profonda revisione delle attuali «regole del gioco»? Si tratta di quesiti difficili e quelle che seguono non sono che considerazioni introduttive.