Recentemente diversi contributi sostengono che una maggior presenza femminile nel mondo della finanza – a tutti i livelli, compreso il vertice – avrebbe contribuito a limitare almeno alcuni dei comportamenti che hanno esacerbato la crisi finanziaria (si veda ad esempio l’intervento di D. Meulders, “Ormoni in borsa: la crisi è maschia?” su questa rivista). E’ sicuramente importante capire se esistono davvero delle differenze nei comportamenti e nelle preferenze tra uomini e donne che si esprimono anche sul mercato del lavoro e, se sì, tentare di individuare da cosa dipendano. Solo così è possibile, da un lato tenerne conto per assicurare - anche dal punto di vista economico – la migliore allocazione e il migliore utilizzo delle risorse e, dall’altro, lavorare per rimuovere i possibili ostacoli a tale allocazione.
L’avversione al rischio. Una vasta letteratura, sintetizzata da Croson e Gneezy (1), evidenzia come le donne siano più avverse al rischio degli uomini, sia quando i comportamenti sono studiati attraverso “esperimenti”, sia quando vengono analizzati nella realtà dei mercati. Una conferma, nel caso italiano, viene dalle informazioni provenienti dall’ “Indagine sui bilanci delle famiglie italiane” condotta della Banca d'Italia. Nell’indagine del 2008, i capifamiglia sono stati posti di fronte alla scelta ipotetica tra diversi investimenti con diversi gradi di rischio e guadagno.
Figura 1. Preferenze tra diversi tipi di investimento finanziario (%)
Come si evince dalla figura 1, se da un lato la maggior parte dei capofamiglia italiani, indipendentemente dal genere, preferisce investimenti non rischiosi, dall’altro questa tendenza è sostanzialmente più forte per le donne che per le uomini. Queste differenze permangono, anche se si tiene conto, con tecniche econometriche, di altri possibili fattori che essendo diversi tra uomini e donne, potrebbero influenzare l’atteggiamento verso il rischio, quali il titolo di studio, l’età, l’area geografica, le condizioni economiche (reddito, ricchezza, tipo di lavoro) e la financial literacy (2).
Ma quali sono le radici di tali differenze? Tra le ragioni che la letteratura di natura “psicologica” identifica vi sono innanzitutto quelle “emotive”: le donne percepirebbero le emozioni in modo più intenso; in particolare sperimenterebbero più ansia e “paura” in risposta a situazioni di stress, mentre negli uomini tenderebbe a prevalere la “rabbia”, che li renderebbe più disposti ad accettare maggior rischio. Ancora, gli uomini risulterebbero più frequentemente over-confident rispetto alla propria performance relativa in situazioni di incertezza rispetto a quanto avviene per le donne. Vale tuttavia la pena di notare che tali differenze si attenuano significativamente nel caso di donne nelle posizioni manageriali o per i professionisti. In un lavoro recente, Adams e Funk (3) mostrano come le donne manager svedesi – pur avendo in generale caratteristiche e preferenze diverse rispetto agli uomini nelle stesse posizioni – non sono più avverse al rischio, anzi semmai lo sono di meno. Se il motivo di quest’ultima evidenza sia un fenomeno di “selezione” (arrivano al vertice solo quelle che hanno dall’inizio caratteristiche più simili a quelle dei colleghi uomini) oppure di “adattamento” (nell’avvicinarsi a posizioni di vertice, la donne adattano le proprie preferenze a quelle degli altri) non è ancora indagato a sufficienza.
Le preferenze “sociali” . Con riferimento alle attitudini rispetto ai valori sociali, etici (ad esempio l’importanza della reciprocità e all’altruismo, l’avversione per la diseguaglianza) i risultati degli esperimenti condotti in letteratura sono più complessi e disomogenei. Le donne appaiono, in alcuni contesti, più “preoccupate” delle diseguaglianze: Adams e Funk (3) mostrano come le donne – anche al vertice – abbiano una maggiore disponibilità e un maggiore interesse per valori “sociali”.
Una serie di altri lavori - sintetizzati da Croson e Gneezy (1) - mostrano, inoltre, come in generale il loro grado di “fiducia” negli altri sia più sensibile al contesto, dipenda cioè dal tipo di interlocutori o dalla situazione specifica in cui l’interazione ha luogo. Le scelte verrebbero effettuate tenendo conto delle circostanze, per certi versi sarebbero meno guidate da un codice etico rigido ma più attente alle situazioni.
L’attitudine verso la competizione. Infine molte evidenze suggeriscono che le donne siano più riluttanti a entrare in contesti competitivi, anche quelle che poi “riescono bene”. Di nuovo è importante interrogarsi su quali possano essere le radici di tali differenze. Alcuni suggeriscono che vi sia un effetto “reazione” (backlash): ci si ritira in anticipo, si evita la negoziazione, perché si anticipa (spesso correttamente) un risultato di esclusione. Altri autori ritengono che al risultato contribuiscano effetti ambientali e culturali: lo suggerirebbero ad esempio, alcuni esperimenti condotti sui bambini, che non evidenziano l’emergere delle differenze citate. Infine vi potrebbero essere cause biologiche, legate alla maggior presenza di testosterone negli uomini, che condurrebbe a una maggiore aggressività (come suggerirebbe ad esempio uno studio di Sapienza, Zingales e Mastriperi (4), con un approccio molto criticato da Meulders nell'articolo già citato).
Cosa concluderne? Le donne possono rappresentare un importante “bilanciamento” nel mercato del lavoro, specie nei contesti in cui l’attenzione al rischio è rilevante: la minore over-confidence in situazioni di incertezza; la maggiore capacità di adeguare le reazioni al contesto e di tenere conto di altri valori oltre al risultato di breve periodo. La capacità di risposte “etiche” (si pensi all’esempio della microfinanza, dove la componente femminile tra i beneficiari del credito – che in generale mostrano comportamenti virtuosi - è molto elevata, come sottolinea Ferri (5)) unita all’evidenza (mostrata da Adams e Ferreira (6)) che la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle imprese beneficerebbe in particolare quelle con una governance peggiore (grazie a un ruolo efficace di monitoring) potrebbe indicare che tale presenza sia rilevante nel settore finanziario, nel quale alla crisi hanno contribuito comportamenti volti all’assunzione di rischio eccessivo, orientati al breve periodo, effetto di una concorrenza in alcuni casi eccessiva, di regole poco attente, spesso non efficacemente enforced.
Quali potrebbero essere quindi le risposte? Se queste analisi fossero condivisibili una prima conclusione è che non andrebbero “premiati” i comportamenti che tendono all’assimilazione con i modelli maschili: se la diversità assicura benefici, occorre appunto mantenerla, incentivarla. Non è d’altra parte evidente come ciò possa essere assicurato: qualche indicazione proviene da alcuni lavori che mostrano come nelle università tecniche statunitensi, una maggiore presenza femminile al vertice si associ sia ad una quota più elevata di insegnanti donne, sia di studentesse (probabilmente per un effetto di mentoring che riduce l’effetto scoraggiamento). Ancora, alcuni studi sperimentali recenti mostrano come azioni positive – volte a garantire una presenza femminile tra i “vincitori” – da un lato inducano una maggiore partecipazione femminile alla competizione, dall’altro non generino costi in termini di minore performance media. Si tratta di indicazioni che vanno approfondite, ma su cui sicuramente occorre riflettere.
Note
(1) Croson, R. e U. Gneezy (2009), “Gender differences in preferences”, Journal of Economic Literature, 47:2. Le evidenze riguardano non solo gli Stati Uniti ma anche i paesi Europei.
(2) Questa evidenza empirica, basata su nostre elaborazioni, va presa con le dovute cautele, principalmente perché la domanda è stata posta solamente ai capofamiglia. Non è possibile quindi escludere la presenza di alcune caratteristiche degli individui, non osservabili dal ricercatore, che da un lato determinano la presenza di un capofamiglia donna e dall’altro influenzano l’attitudine verso il rischio. Qualora presenti, queste caratteristiche renderebbero impossibile dare un’interpretazione causale alle correlazioni evidenziate.
(3) Adams, R. e P. Funk (2010), “Beyond the glass ceiling: does gender matter?”, EGCI WP n. 273.
(4) Sapienza, P., Zingales, L. e Mastripieri, D. (2009), “Gender differences in financial risk aversion and career choices are affected by testosterone levels”, mimeo.
(5) Ferri, G. (2009), Dalla finanza rampante alla finanza responsabile. Il ruolo della donna, mimeo. Si veda anche “Donne e Microfinanza” a cura di Marcella Corsi, Aracne 2008.
(6) Adams, R. e D. Ferreira (2009), “Women in the boardroom and their impact on governance and performance”, Journal of Financial Economics, November.