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Dove va il capitalismo?

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Sia nella teoria sia nella politica economica (maledetto il giorno di questa separazione!) i ragionamenti sono tuttora fondati su modelli di equilibrio economico generale, pur di volta in volta rinnovati cambiando alcune delle ipotesi di partenza – anzi, calibrando i modelli, e cioè ricavando dalla realtà le deviazioni dal modello e reintroducendole per renderlo più efficace, vanificando così lo stesso concetto di modello che si riempie di fenomeni e non ne studia il fondamento. Che i modelli siano inadatti per interpretare la realtà è divenuto ovvio con la crisi del 2007/8, e i loro difetti sono abbastanza noti. Il principale è che si tratta di modelli intertemporali, ma non dinamici, perché in essi la struttura dell’economia resta sostanzialmente inalterata al passare del tempo: la composizione dei consumi non cambia, l’occupazione è sempre piena (salvo per la presenza del sindacato che sarebbe la causa della disoccupazione), le preferenze individuali sono trasportabili all’economia nel suo complesso, la moneta è velo, ciclo e progresso tecnico o sono assenti o rispettano la regola aurea della produttività, così che la distribuzione del reddito è costante e riflette il contributo di ciascuno alla produzione, la concorrenza è sempre uguale a se stessa, i tassi di profitto e di interesse tendono all’uniformità, eccetera.

Una delle ragioni di tanta stolidità, sta nella paura di invocare il capitalismo come concetto per descrivere il sistema economico, perché ciò sarebbe in conflitto con l’ovvia osservazione che crediti e debiti si bilanciano sempre, e dunque capitale, ricchezza e patrimonio nell’aggregato non esistono. Invece, gli storici sanno bene che il capitalismo esiste, che se attivo e passivo si bilanciano è il livello al quale si bilanciano che è rilevante, e se gli economisti lo ignorano perdono gran parte del significato della loro professione.

Per capire cosa intendo per capitalismo, metto a confronto due diverse realtà economiche: quella successiva alla grande depressione del 1929 e quella successiva alla grande inflazione della seconda metà degli anni ’70, e illustro le differenze nei due “modelli”. Si vede subito che il capitalismo del secondo “modello” è diverso da quello del precedente: il rapporto tra lo Stato e i capitalisti rivela una diversa egemonia dell’uno rispetto agli altri che si riflette in diverse istituzioni, e nulla è più evidente della trasformazione post reaganiana della natura del sistema bancario.

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