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«Tra tanti ciechi e monocoli siamo condannati a vedere; tra tanti illusi dobbiamo essere consci di tutta un'esperienza storica e attuale». Era il novembre del 1922. Lo scriveva Piero Gobetti – e oggi potrebbero ripeterlo le decine di migliaia di uomini e di donne mobilitati dalla Fiom nella consapevolezza dell'emergenza democratica che stiamo vivendo –, nel primo numero della «Rivoluzione liberale» uscito dopo la Marcia su Roma, quando quasi tutti, a destra come a sinistra, consideravano quella catastrofe poco più che un'increspatura sulla superficie piatta della storia. Questo per dire come spesso le grandi cesure storiche – i «mutamenti di stato» negli assetti istituzionali, i terremoti nelle culture politiche, i punti terminali dei cicli – siano ignorate dagli stessi protagonisti. Come stia, forse, in un angolo del Dna della specie l'abitudine a ricondurre lo straordinario entro l'involucro rassicurante dell'ordinario. Oggi ho l'impressione che sia un po' così. Anche in casa nostra.
Anche noi, come gli astronauti di ritorno dalle missioni spaziali nei brutti film di fantascienza (quando esisteva ancora la fantascienza) possiamo dire di aver vissuto «l'inimmaginabile». Abbiamo visto una buona metà del corpo elettorale mettersi fuori dal sistema politico ufficiale. Praticare con perentorietà una migrazione biblica. Abbiamo visto in diretta, a camere riunite e a reti unificate, il parlamento arrendersi alla propria impotenza e «scegliere di non scegliere» al primo atto fondativo della propria esistenza, l'elezione del presidente. Per esibirsi subito dopo in un grottesco rito sado-maso, tutti in piedi ad applaudire l'uomo che li prendeva a scudisciate, lasciando il campo a quello che è ormai un presidenzialismo di fatto, lontano anni luce dal modello di democrazia parlamentare previsto dai padri costituenti per il semplice fatto che il parlamento, per la seconda volta in un anno e mezzo, è stato surrogato dal corno monocratico dell'Esecutivo. E che il Governo è nato in realtà fuori – e sopra – di esso, controllato dal «pilota automatico» europeo che non lascia margini di manovra né discrezionalità. Abbiamo visto infine un grande partito – l'unico e ultimo, in Italia, a chiamarsi ancora partito, quello che ha ottenuto alla Camera l'abnorme premio di maggioranza previsto dalla legge-porcata - disfarsi sotto i nostri occhi, travolto dalla disgregazione del suo gruppo dirigente e dalla totale mancanza di una cultura politica, quale che sia. E a fronte di esso tornare ad ergersi l'immagine sulfurea del Cavaliere riesumato da morte presunta e assurto istantaneamente a dominus e arbiter degli «equilibri politici» (sic).
L'abbiamo visto, tutto questo. E nonostante ciò siamo ancora qui a domandarci come metterci una pezza secondo le regole dell'ordinaria amministrazione. Come potrà il Pd ritrovarsi, magari al Congresso. Quali carte ha la sinistra interna. Con Barca? Magari in ticket con Vendola? O, all'opposto, con Renzi, uno al Partito l'altro al Governo? O, che ne so, con la Cgil di ieri in asse con quella di oggi, Epifani e Camusso? Come se lì, in quel paesaggio di rovine, ci fossero ancora materiali per costruire zattere. E risorse politiche e umane per risollevarsi. E soprattutto come se lo strappo consumato con la nascita del governo Letta-Berlusconi non avesse scavato un abisso tra quella classe politica, tutta intera, e le residue energie democratiche del Paese (quelle che si ostinano a considerare una «sintesi di tutte le proprie antitesi» il berlusconismo e il suo eroe eponimo).
Meglio sarebbe riconoscere realisticamente che quella del Pd è una crisi irreversibile. Che la fine di quel partito sarà probabilmente lunga, senza Big bang ma anche senza punti di ripristino o di ritorno. Troppo ampia la parte del suo immaginario e della stessa coscienza morale «colonizzata» dal modo di essere e di pensare dell'avversario, come è emerso alla superficie nei giorni neri dell'elezione del presidente e nella facilità, per alcuni voluttà, con cui è avvenuta la coincidentia oppositorum nella ibrida compagine governativa. Troppo evidente l'assenza di un pur minimo denominatore comune in termini di cultura politica. Troppo logorata la sua classe dirigente, sempre più impegnata a difendere l'indifendibile.

continua

Tratto da www.ilmanifesto.it
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