“L’Italia spende il 5% del Pil per il servizio del debito e solo l’1% per il sistema universitario. Una follia. La soluzione è democratizzare l’eurozona, ristrutturare il debito pubblico e tassare i grandi patrimoni”.
Traduzione redatta di una conversazione tra lo scrittore Thomas Piketty, autore del Capitale nel XXI secolo, e Pablo Iglesias, leader del partito politico spagnolo Podemos, trasmessa nel programma “Otra vuelta de tuerka” (condotto dallo stesso Iglesias) e pubblicata in lingua inglese su Juncture Online.
Pablo Iglesias: Leggendo l’introduzione al tuo libro, mi ha colpito la maniera in cui hai descritto la tua esperienza negli Stati Uniti. Hai scritto che volevi tornare subito in Europa, e che eri infastidito dalla deificazione degli economisti negli Usa.
Thomas Piketty: Mi sono trovato bene negli Usa, ma non vedevo l’ora di tornare in Francia e di rimettermi al lavoro sulla ricerca storica, economica e sociale. In generale, mi considero più un ricercatore delle scienze sociali che un economista. Penso che la linea di confine tra l’economia, la storia, la sociologia e le scienza politiche sia molto più sottile di quanto non si voglia far credere. Capisco che gli economisti siano attratti dall’idea di fare dell’economia una scienza a sé, così complessa da risultare incomprensibile a tutti gli altri. Ma è un approccio pericoloso, che ha fatto molti danni. Nel mio libro mi occupo della storia dei redditi e dei patrimoni, ed è un tema che non penso si possa affrontare senza mescolare l’economia al sociale, alla politica e alla cultura. Ci sono questioni che sono troppo importanti per essere lasciate agli economisti.
Iglesias: Hai detto che non sei un economista marxista. Allora perché intitolare il tuo libro Il capitale nel XXI secolo?
Piketty: Il titolo riflette il mio tentativo di rimettere la distribuzione della ricchezza al centro dell’economia politica, ma approcciando il tema in maniera diversa da come fecero autori come Ricardo e Marx nel 19esimo secolo. Nel corso dei secoli siamo passati dalla proprietà terriera alla proprietà immobiliare a quella finanziaria alla proprietà intellettuale, ecc. Eppure, nonostante questo, i processi di accumulazione del capitale non sono cambiati così tanto. Nella prima metà del 20esimo secolo, una serie di violenti shock – la prima guerra mondiale, la rivoluzione bolscevica, la Grande Depressione, la seconda guerra mondiale – hanno permesso una riduzione delle disuguaglianze nei paesi capitalisti. È solo in seguito a questi shock che le élite dei paesi occidentali hanno accettato una serie di riforme sociali e fiscali a cui si erano strenuamente opposte prima del 1914. Sono stati questi mutamenti istituzionali a permettere una certa riduzione delle disuguaglianze. A partire dalla rivoluzione conservatrice angloamericana di Thatcher e di Reagan abbiamo assistito ad un’inversione di quel processo, che ha determinato livelli di disuguaglianza che oggi, in alcuni casi, superano quelli del periodo pre-1914. La prospettiva storica ci aiuta a capire che le disuguaglianze nel capitalismo non sono il frutto di eventi naturali ma di specifiche situazioni economiche, legali, politiche ed istituzionali.
Iglesias: Nel tuo libro spieghi che la guerra è uno dei fattori storici cruciali per comprendere la riduzione delle disuguaglianze. Cosa possiamo aspettarci dal complesso contesto geopolitico di oggi, in cui nuovi attori emergenti stanno iniziando a sfidare l’egemonia americana? Le possibilità di cambiamento economico e sociale passano necessariamente per i conflitti militari?
Piketty: Nel 20esimo secolo è stato senz’altro così: prima dello shock delle due guerre mondiali non si era verificato nessun movimento spontaneo per la riduzione delle disuguaglianze, e le élite si erano rifiutate di accettare qualunque riforma significativa del sistema. La Francia è un ottimo esempio: prima del 1914 le élite repubblicane francesi si erano rifiutate di pagare qualunque forma di imposta sul reddito. Questa è stata introdotta solo nell’estate del 1914, e non per costruire asili ma per finanziare la guerra contro la Germania. Dobbiamo trarre la conclusione che solo gli shock violenti possono costringere le élite a scendere a compromessi? Non credo. Sono abbastanza ottimista. Voglio credere che le forze democratiche siano in grado di riprendere il controllo dell’economia e di domare le forze alla base delle disuguaglianze. Allo stesso tempo, sarebbe naif pensare che i processi elettorali siano sufficienti a generare il cambiamento necessario. I movimenti sociali – e in alcuni casi anche i movimenti politici caotici – sono essenziali per produrre il cambiamento.