Veramente qui si tratta della politica del governo in carica; si tratta di poveri e di ricchi, non di buoni e di pravi. Non sempre, si dirà, la dimensione morale e quella economica sono sovrapponibili. Ma, se si tratta di questioni macroeconomiche, politiche, la capacità di fare il male dei poveri è praticamente nulla. In politica, in economia, i poveri possono fare il male solo se i ricchi e potenti li spingono a un tale grado di disperazione, personale e culturale, da indurli – qualche volta costringerli – a massacrare altri poveri (e qualche ricco) negli stermini di massa, in guerra e a margine della guerra, che si sono visti nelle due guerre mondiali; e negli anni intermedi. E che si realizzano già ora nelle guerre periferiche, non europee, o al margine di esse.
Non sto esagerando. Se lo faccio, lo faccio in compagnia di commentatori e studiosi molto più autorevoli di me. Gallino sta riprendendo i temi e i titoli di autori liberali e socialdemocratici, da Louis Brandeis (Con i soldi degli altri) a Rudolf Hilferding (Finanzcapitalismo), sull’arco di tutto il secolo scorso. Marcello De Cecco, autore, decenni fa, di Moneta e impero, ci ricorda quasi tutti i mesi la crisi del 1907, la fine della belle époque. Quando gli equilibri si rompono, quando gli interessi degli Stati confliggono, anche se la finanza e la produzione sono globalizzate e le borse sono intrecciate, come erano anche un secolo fa, la violenza in grande è sempre in agguato. Se potessi consigliare un libro da leggere, se non lo hanno letto, ai potenti della terra, consiglierei Le conseguenze economiche della pace, di Keynes, scritto subito dopo Versailles, in cui si sosteneva che pretendere restituzioni da chi i beni da restituire non li ha, non ottiene la restituzione, ma fa arrabbiare moltissimo i debitori, li costringe alla violenza.
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