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Bhopal, la strage infinita

09/06/2010

Lo stabilimento chimico dell'Ucil - Union Carbide India Ltd - a Bhopal rilasciò, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, 40 tonnellate di gas tossici, soprattutto isocianato di metile. Nei primi giorni morirono 6.000 persone. Molti ebbero gravi conseguenze, persero la vista, si ammalarono di cancro, di malattie respiratorie e neurologiche. Le conseguenze colpirono i figli delle madri incinte e i figli dei figli. Dopo un quarto di secolo, ieri, la prima sentenza di un tribunale indiano. Sette amministratori dell'Ucil di allora, tutti indiani, sono stati condannati a due anni di carcere e al pagamento di 100.000 rupie, duemila euro o poco più. Anche Ucil è stata condannata a pagare 500.000 rupie. I condannati potranno appellarsi e la nuova fase processuale potrebbe durare anni. Qualche centinaio di attivisti ha manifestato il proprio scandalo per una sentenza tanto mite.
Uno dei condannati è Keshub Mahindra. Questi è il presidente dell'industria di autoveicoli e macchine movimento terra Mahindra&Mahindra, tra le prime dieci imprese dell'India con un fatturato di oltre 6 miliardi di dollari. Mahindra si è laureato alla Wharton University della Pennsylvania, ed è notoriamente «un filantropo che indirizza con efficacia fondi al settore sociale....Oggi egli è un'icona, un entusiasmante leader negli affari.....». Questo almeno si può leggere nel sito aziendale di Mahindra. Potrà mai un uomo siffatto finire in carcere? Non potrà. L'intero sistema capitalistico indiano si sentirebbe manomesso.
Il disastro di Bhopal era previsto, era inevitabile. Qualche mese prima, il 21 giugno 1984, la direzione aziendale aveva interrotto il raffreddamento dell'impianto che produceva il gas velenoso, che poi serviva da base per qualche concime. Il risparmio ottenuto era di ben 39 dollari al giorno. Quello stesso giorno il sindacato, cui i padroni dell'Ucil aveva detto in molti modi di non fare tante storie, dichiarò che «Bhopal giaceva alla bocca di un vulcano». Oggi, passati 25 anni, il vulcano continua a eruttare veleni, a uccidere. Nessuno, neppure il filantropo Mahindra, ha cercato di risanare l'area dell'Ucil che contamina acqua, aria, terra, là dove sopravvivono - dire vivono è troppo - migliaia di persone, le più povere e disperate della città.
Anni dopo quel disastro, nel 1989, Union Carbide ha pagato 470 milioni al governo indiano. Alla gente di Bhopal sono arrivati pochi spiccioli. Union Carbide non si è più ripresa e nel giro di altri 10 anni è finita in mano al concorrente, Dow Chemical. Quest'ultimo ha avuto buon gioco nel dire che del disastro non sapeva niente e quindi non era in grado di liberare Bhopal dai liquami velenosi. Comunque, ha ripetuto, non era affar suo.
Storie di ieri, storie indiane, storie del quarto mondo, delle colonie, del capitalismo. Oggi l'attualità parla di Bp, un'altra multinazionale e della sua macchia nera nel Golfo del Messico. Qui, nel mondo dei ricchi, il 20 aprile di quest'anno, la perdita di petrolio è cominciata perché la piattaforma galleggiante presa in affitto costava mezzo milione di dollari al giorno e non si poteva aspettareun altro giorno, il tempo necessario per le misure di sicurezza, già minori di quelle obbligatorie in altri mari, sempre per la fretta di guadagno e la smania di sfuggire, da veri petrolieri da film, ai controlli pubblici. I morti nell'incendio sono stati undici, non undicimila, ma il principio del profitto e del disprezzo per le vite degli altri è uguale. Bhopal non ha insegnato niente.

Tratto da www.ilmanifesto.it
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