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Come la sinistra può ripensare l'uguaglianza
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Come la sinistra può ripensare l'uguaglianza

30/05/2010

C’era una volta la Terza Via di Tony Blair e Anthony Giddens, quella che aveva dismesso gli abiti logori del vecchio compromesso socialdemocratico e ammiccava sbarazzina ai ceti emergenti della City londinese. Un progetto preso a modello anche dalla nostra sinistra “riformista”, ai tempi del “primo ex comunista a Palazzo Chigi” e dell’“Ulivo mondiale”.
Ora che i partiti socialisti sono da tempo passati all’opposizione in Francia, Germania e Italia, ora che l’epopea del New Labour si è conclusa con una sconfitta senza gloria, e soprattutto ora che i venti di una crisi senza precedenti dalla seconda guerra mondiale continuano a spazzare il Vecchio Continente minacciando fortemente la tenuta del “modello sociale europeo”, è forse giunto il momento di delineare un bilancio politico di quella stagione.
Per farlo, e per farlo seriamente, è tuttavia necessario affrontare preliminarmente alcuni nodi teorici. Due erano i presupposti dai quali traeva le mosse la strategia del “riformismo” a cavallo del secolo. In primo luogo la centralità riservata alla crescita economica, in virtù della quale si rendeva accettabile anche un alto livello di disuguaglianza (postulato del trade off fra crescita e uguaglianza): “La socialdemocrazia classica”, scriveva Giddens nel suo celebre manifesto La Terza Via, “concepiva la creazione di ricchezza come quasi secondaria rispetto ai propri interessi fondamentali per la sicurezza economica e la redistribuzione”.
Si trattava allora di puntare decisamente sulla crescita, tanto più che livelli maggiori di disuguaglianza erano inevitabilmente portati con sé dal processo di globalizzazione in corso. L’apertura internazionale dei mercati, accompagnata al travolgente sviluppo dell’Information and Communication Technology, implicava una crescita del divario retributivo fra lavoratori skilled (capaci di cavalcare la rivoluzione tecnologica) e lavoratori unskilled (esposti alla competizione di una considerevole massa di lavoratori non qualificati dei paesi in via di sviluppo, patrie delle nuove manifatture dell’economia globale).
Di fronte a tale quadro appariva chiara e obbligata - e qui veniamo al secondo punto fondamentale del programma della Terza Via - la strategia sulla quale puntare: “La linea guida”, scriveva ancora Giddens nel suo manifesto, “è l’investimento nel capitale umano dovunque possibile, piuttosto che la garanzia diretta del sostentamento economico. Al posto dello stato sociale dovremmo mettere lo stato come investitore sociale”. Dotare di capitale umano chi ne è meno dotato appariva la via maestra non solo per favorire lo sviluppo economico ma anche per tenere “sotto controllo” livelli crescenti di disuguaglianza.
Per fare chiarezza della debolezza teorica di molti di questi assunti possiamo servirci di un prezioso volume appena pubblicato dall’Università Bocconi Editore: Ricchi e poveri. L’Italia e le diseguaglianze (in)accettabili. L’autore è Maurizio Franzini, docente di Politica economica dell’Università “La Sapienza” di Roma. In questo libro Franzini ha soprattutto il merito di confrontarsi con la traduzione italiana delle teorie appena esposte (sebbene il suo centro di interesse non sia specificamente la Terza Via, ma più in generale i vari approcci proposti dalla teoria economica contemporanea in merito al problema della disuguaglianza).
Innanzitutto, spiega Franzini, le analisi più recenti dimostrano come non possa darsi un legame sistematico e persistente fra crescita e disuguaglianza. Certamente i singoli canali di cui si compone la crescita del reddito nazionale possono essere influenzati dal livello della disuguaglianza, ma la modalità con cui i diversi fenomeni si compongono non riescono a dare vita ad un esito coerente e prevedibile (ad esempio l’alta disuguaglianza potrebbe avere un impatto positivo sull’accumulazione di capitale fisico a causa del più elevato tasso di risparmio che contraddistingue i percettori di redditi elevati, ma la stessa alta disuguaglianza avrà probabilmente un’influenza negativa sull’accumulazione di capitale umano: quali dei due effetti prevarrà?).
Vi è poi la confutazione del modello che spiega i crescenti differenziali salariali con i premi più elevati corrisposti alla conoscenza e al capitale umano: un modello, afferma Franzini, che rappresenta “una spiegazione piuttosto tranquillizzante delle disuguaglianze”, perché le rende compatibili “con l’idea, difficile da contestare, che il merito costituito dal possesso di abilità debba essere adeguatamente compensato”. La realtà italiana è ben diversa: qui ad esempio il differenziale retributivo dovuto all’istruzione è nettamente inferiore a quello che prevale nella gran parte dei paesi avanzati, nonostante la quota di laureati sulla forza lavoro sia inferiore (e si sa che la legge della domanda e dell’offerta alla base di ogni economia di mercato dovrebbe far salire il prezzo dei “beni scarsi”).
Le ragioni dell’alta disuguaglianza italiana (considerando i paesi dell’area Ocse – alcuni dei quali relativamente poco sviluppati come Turchia e Messico – solo cinque fanno peggio dell’Italia in base al coefficiente di Gini - la misura sintetica più diffusa della disuguaglianza) sono da ricercarsi in altri fattori molto meno accettabili dal punto di vista del valore sociale e del merito; fattori che spaziano dalla forte compressione dei salari prodotta da una quota sempre crescente di lavoratori precari e aticipi (spesso molto qualificati ma debolissimi dal punto di vista della forza contrattuale) alla crescente concentrazione di reddito nelle mani dei lavoratori super-ricchi (i cui effetti distorsivi per l’intero sistema economico fanno ipotizzare che nel fenomeno dei top incomes si nasconda “una nuova forma di fallimento del mercato”).
Ecco perché le disuguaglianze italiane appaiono particolarmente “inaccettabili” (alla necessità di distinguere non solo fra alta e bassa disuguaglianza, ma anche fra disuguaglianza “accettabile” e “inaccettabile” viene dedicato un intero capitolo).
E qui passiamo alla riflessione centrale dell’analisi di Franzini, che costituisce anche il contributo più originale del libro. Il progetto di trasformare l’economia in una hard science che prescinda completamente dai giudizi di valore nell’elaborazione di analisi “oggettive” è alla base dell’incapacità da parte degli economisti di parlare di disuguaglianza se non in termini “strumentali”. La disuguaglianza è sempre esaminata in relazione alla sua possibilità di favorire od ostacolare altri fenomeni come la crescita o, per citare un filone più recente e non privo di interessanti spunti analitici, la felicità. Ma, spiega Franzini, essendo inevitabile che questi fenomeni risentano “anche di numerosi altri fattori”, la “correlazione tra la disuguaglianza e il fenomeno oggetto di indagine diventa spuria” e si corre il rischio di “rendere tali fattori decisivi nel giudizio che si esprime sulla disuguaglianza”.
Occorre dunque ritornare a riflettere sull’uguaglianza/disuguaglianza in sé, analizzando le ragioni per le quali una certa disuguaglianza potrebbe rivelarsi accettabile e un altro tipo di disuguaglianza invece no (e naturalmente mettendo in relazione queste analisi con gli “assetti reali” che caratterizzano le diverse società, sia nella loro rappresentazione istantanea che nelle modalità della loro riproduzione intergenerazionale; solo così sarà possibile elaborare un progetto efficace di riforme).
Si potrebbe concludere con l’auspicio che anche la sinistra italiana ed europea torni a cimentarsi con tali questioni. Ma l’auspicio potrebbe suonare fuori luogo, come se si trattasse di dare maggior spazio ad un tema fin qui trascurato: per definizione – infatti – non può esserci “sinistra” che non faccia di questo argomento il problema principale delle proprie analisi e della conseguente iniziativa politica. Senza questo non c’è una “sinistra disattenta”: semplicemente, non c’è una “sinistra”. E allora qualsiasi auspicio è nel contempo troppo e troppo poco.

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