"Solidarietà idiota». Con questo titolo provocatorio, apparso qualche giorno fa sul quotidiano libanese Al Akhbar, il giornalista Amar Mohsen definiva l’affannarsi mediatico dei musulmani a prendere le distanze dagli attacchi a Charlie Hebdo.
Affanno che si trasformava nell’hashtag #JeSuisCharlie (il più popolare della storia di twitter), magliette, foto viralmente diffuse in rete e su facebook. Tutti impegnati a dire: sono musulmano, ma sono anche Charlie. E come ogni singolo musulmano era chiamato a scusarsi a nome dell’intera sua specie per un atroce gesto commesso da uno sparuto gruppo, così l’attacco di due (per quello che ne sappiamo) persone contro la redazione di un giornale è diventato immediatamente il tentativo di espugnare il più prezioso dei nostri beni: la libertà di espressione.
Come in una catena di figure retoriche, abbiamo tutti classificato i fatti di Parigi come un attacco al «valore europeo» per eccellenza. E giù ancora un’altra, infinita catena di hashtag, foto e dichiarazioni di cittadini musulmani che fanno pubblica ammenda, che urlano «non in mio nome», perché io, «io sono Charlie».
Ma, come fa notare Mohsen, ripreso anche da Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, «quello che è successo a Parigi è un attacco francese alla Francia».
I quattro sospetti, di cui tre ormai impossibilitati a parlare e una sparita nel nulla, non sono forse cittadini francesi, nati e cresciuti in Francia, seppur di origine araba, e musulmani?
Così come era di origine araba, e musulmano il povero poliziotto, Ahmed Merabet; eppure, per le leggi della République che ha difeso con la vita, francese.
Come, per citare una soltanto delle vittime, il grande Georges Wolinski: che era cittadino francese, ebreo, nato in un paese arabo, da padre polacco e madre tunisina. Un inno al multiculturalismo à la française, si direbbe.
Perciò chi è «Charlie» veramente? Perché i musulmani di tutto il mondo devono affannarsi a dire: «anch’io sono Charlie»? Perché essere musulmano ed essere francese dovrebbero essere elementi in contraddizione fra loro in un paese fondato sull’égalité?